L’Apollo brindisino: un unicum oggetto di studio

di Alessandro Caiulo e Laura Santovito per il7 Magazine

La Palazzina Belvedere, un’elegante costruzione dotata di una magnifica terrazza che si affaccia sul porto interno di Brindisi, realizzata nell’ambito delle grandiose opere di rifacimento del lungomare in coincidenza della costruzione, negli anni Trenta del secolo scorso, del Monumento Nazionale al Marinaio d’Italia e nell’ambito dei quali si decise di dare maggiore respiro a quella che oggi chiamiamo Scalinata Virgiliana, ospita da una decina di anni a questa parte la Collezione Archeologica Faldetta, gestita dal 2012, in sinergia con il Comune di Brindisi e la Soprintendenza, dall’Associazione Le Colonne.
Si tratta di una collezione privata, a fruizione pubblica, che conserva importanti testimonianze archeologiche del territorio pugliese anche se, come accade con tutte le raccolte archeologiche private, troppo spesso risultano ignoti i dati relativi alla provenienza e al contesto di origine.
Comprende una ricca varietà di forme vascolari in ceramica micenea, corinzia, attica a figure nere, italiota a figure rosse, a vernice nera, bruna e rossa, in stile di Gnathia, ceramica di produzione messapica ed altro ancora. L’importanza di questa collezione, fatta di oltre trecentocinquanta pezzi, è data dalla unicità o, comunque, estrema rarità di alcuni reperti che meriterebbero particolare attenzione da parte degli studiosi.
Fra i pezzi più importanti di cui andare fieri vi è, ad esempio, una Giara a staffa micenea (un contenitore per olio) risalente al 1.300 a.C., che non a caso è catalogato nella sua vetrinetta col n°1 della collezione. Notevole, per bellezza e stile, è anche un’Hydria (contenitore per acqua, dotato, per questo di tre manici: due per riempirla e trasportarla ed una, posteriore, per versarla) del IV secolo a.C, con raffigurate scene dionisiache ed una menade con nella mano destra quello che a tutti gli effetti è un tamburello.
Ma il pezzo che, probabilmente, merita più attenzione, fra i tanti che abbelliscono ed impreziosiscono il museo, è un cratere a campana apulo a figure rosse, raffigurante una scena del mito di Oreste, che ha delle caratteristiche che lo rendono unico nel suo genere ed il che mi ha spinto ad approfondirne maggiormente la conoscenza ed a scrivere questo articolo “a quattro mani” con l’archeologa Laura Santovito dell’associazione Le Colonne la quale ben conosce, per averlo ammirato, custodito e studiato, questo antico manufatto.
Il vaso è stato sottoposto ad interventi di restauro e risulta complessivamente in buone condizioni. E’ attribuito, con ogni probabilità, al pittore del “Long Overfalls Group” ed è inquadrato cronologicamente tra il 380 ed il 360 a.C. Presenta una decorazione con foglie di alloro immediatamente sotto il labbro e kyma ionico ed una fascia a meandro sotto la raffigurazione.
Su un lato sono rappresentate tre figure ammantate, due affrontate ed una di profilo a sinistra, una delle figure regge un bastone. Dall’altro lato la scena è composta da una figura alata sulla destra, vestita con un corto chitone e calzari, al centro vi è una figura maschile nuda con una clamide intorno al collo e calzari, inginocchiato su un altare collocato su due gradini e che impugna una spada estratta dal fodero. Chiude la scena una terza figura maschile nuda con hymation, cioè mantello drappeggiato, e calzari, in posizione stante con una mano protesa in avanti mentre con l’altra regge una lancia. La rappresentazione si svolge all’aperto in un luogo indefinito. La scena rappresentata può essere identificata con l’episodio di Oreste supplice a Delfi ispirato alle Eumenidi di Eschilo, con qualche inevitabile libertà nella composizione e resa dei personaggi.
E’ quindi possibile riconoscere l’eroe Oreste che brandisce la spada insanguinata, appena estratta dal fodero, quella stessa spada con cui ha ucciso la madre Clitemnestra – la quale a sua volta, anni prima, con la complicità del suo amante Egisto, aveva ucciso il marito Agamennone, padre di Oreste – e l’Erinni che si avventa contro di lui. La persecuzione e purificazione di Oreste matricida che si rifugia a Delfi è un motivo comune nella ceramica italiota probabilmente derivante dal grande rilievo che ha la figura dell’Erinni in Magna Grecia, considerata non solo come demone vendicatore ma soprattutto come fautrice e garante dell’ordine cosmico.
La terza figura generalmente presente nelle pitture vascolari è il dio Apollo, ma che presenta connotati diversi rispetto a quelli che, invece, vediamo nel cratere in questione. Ed è proprio la presenza di questa figura con la lancia, che non trova alcun tipo di riscontro nelle raffigurazioni vascolari note dell’Oresteia, che rende il vaso della Collezione Archeologica Faldetta un unicum.
Il confronto con altri crateri fa pensare che si tratti anche in questo caso del dio Apollo, in quanto è l’unica figura maschile presente nel mito (oltre Ermes, il quale, però, viene rappresentato con connotati del tutto differenti). Ma come spiegare una raffigurazione del dio senza i suoi attributi canonici e per giunta rappresentato in maniera del tutto non convenzionale con una lancia nella mano?
E’ vero che nel mito è presente il dio Apollo che impugna un’arma per scacciare l’Erinni e proteggere Oreste, ma si tratta di un arco con una freccia, la lancia generalmente è un attributo della dea Atena o si trova in contesti differenti.
La raffigurazione stessa della lancia risulta, inoltre, essere atipica: è più corta rispetto alle canoniche rappresentazioni, ha la parte inferiore più larga che tende a stringersi verso la punta (il che non la renderebbe adatta, per esempio, ad essere … lanciata), e quest’ultima è di proporzioni decisamente ridotte rispetto al bastone. Anche la resa della mano del braccio destro teso è particolare: uno sguardo sommario farebbe pensare al gesto del dio per scacciare l’Erinni a difesa di Oreste, ma osservando la mano con più attenzione sembra piuttosto indicare qualcosa o forse addirittura reggere qualcosa. La resa pittorica della mano è approssimativa e le pennellate nella parte inferiore risultano confuse e sfumate, senza linee di contorno nette.
Tutti questi elementi fanno pensare a delle correzioni effettuate dal ceramografo e che ci si trovi, comunque, davanti alla scena della purificazione di Oreste, per cui la figura maschile potrebbe effettivamente essere Apollo, sia pure privato dei suoi consueti attributi.
Nel brano eschileo di Oreste supplice a Delfi, la figura di Apollo è centrale e tiene in mano un ramo di ulivo intrecciato con fili di lana come simbolo di protezione, le Erinni sono dormienti e circondano Oreste abbracciato all’omphalos (la sacra pietra scolpita situata nel Tempio di Apollo a Delfi, da cui la Pizia diffondeva i suoi vaticini: in particolare l’onfalo, cioè l’ombelico, indicava che Delfi, col suo santuario, era il centro del mondo), macchiato dal sangue che ancora gronda dalle sue mani. La Pizia al vedere la scena fugge via inorridita.
Mentre nelle raffigurazioni della purificazione di Oreste (che si trova su altri crateri a campana apuli) è sempre presente Apollo che tiene in una mano un ramo di alloro e nell’altra un porcellino sacrificale.
Dopo avere vendicato il padre, Oreste doveva ritornare al santuario di Delfi e porsi come supplice sotto la protezione del dio Apollo. A Delfi Oreste non ottiene la purificazione dalla sua colpa, bensì l’indicazione di quanto dovrà fare per ottenerla e per consultare l’oracolo era necessario offrire un sacrificio. E’ pertanto ipotizzabile che la mano destra tenesse, o avrebbe dovuto tenere, prima della ipotetica correzione, un porcellino sacrificale e la lancia impugnata nella mano sinistra non fosse altro che il ramo di alloro, che successivamente e per motivi non noti, il ceramografo ha modificato.
Va tenuto in debito conto che le immagini italiote di Oreste a Delfi hanno una fluidità iconografica, per cui il ceramografo aveva libertà di realizzare immagini di uno stesso mito che doveva evidentemente essere ben conosciuto dalla committenza.
Si tratta di una semplice ipotesi di lavoro ma sarebbe interessante approfondire la presenza di questa figura con la lancia, in modo da aggiungere un ulteriore contributo agli studi già presenti dell’iconografia vascolare dell’Oresteia.
Non può nemmeno escludersi dell’esistenza di una diversa versione del mito di Oreste, magari tramandata oralmente a livello locale, non perfettamente coincidente con quella canonica.
Non va dimenticato, infatti, che la prima versione di questo mito risale a circa tremila anni addietro, ed è attribuita ad Omero, il poeta cieco che cantò la fine di Troia ed il viaggio di Ulisse, mentre poi fu ripresa, con qualche variazione o licenza… poetica, non solo da Eschilo ed Euripide ma, prima di loro, da Stesicoro nel VII secolo a.C. e, dopo di loro, anche dal poeta brindisino, vissuto nel II secolo a.C., Marco Pacuvio, il primo grande drammaturgo e tragediografo latino, della cui opera “Oreste schiavo” ci sono pervenuti, purtroppo solo pochi frammenti; del mito di Oreste scrisse anche, verso la fine dell’Impero Romano, il poeta Blossio Emilio Draconzio, mentre in tempi relativamente recenti è stato il protagonista di tragedie scritte da Vittorio Alfieri, Voltaire e Giovanni Rucellai, oltre che delle opere musicali di Domenico Cimarosa, Francesco Morlacchi e del compositore tedesco Konradin Kreutzer. Ne esiste anche una versione a firma del grande Pier Paolo Pasolini, realizzata nel 1960, rifacendosi agli schemi di Eschilo.
Tornando all’Oreste o Apollo brindisino, immortalati in questo antico cratere, tanta è stata la passione e l’entusiasmo con cui ne ho approfondita la conoscenza che si è anche risvegliata in me una certa vena poetica che, nel dubbio se esprimerla nel linguaggio di Marco Pacuvio o in quello di Dante, ho preferito, come avrebbe probabilmente scelto anche papa Pasqualino Camassa, profondo conoscitore di quelli che definiva gli avanzi monumentali di Brindisi, ma anche convinto sostenitore dell’importanza del dialetto come lingua dotata di una sua ben precisa dignità, in vernacolo.
LU CANTRU TI ORESTI
Aggiu vistu allu museu, quiddu sott’alli culonni,
‘nnu cantru russu e neru tuttu quantu dicuratu.
Mi vvicinu a nna cristiana, ca paria la patrona,
e cu garbu li dummandu: ma ci eti ddu mbucatu
cu la ciola a penzuloni?
Mi va uarda ti traversu, comu sia ca so gnoranti,
po mi tici ca eti Oresti ca, mannaggia a ci l’estra…,
…era ‘ccisu Clitennestra!
Menchia papa! ce tragedia! Iu li ticu scunsulatu:
e ce t’è ca era fattu cu ssi mmerita la morti?
Vani sciemu – edda mi tici – e quasi quasi mi ‘ndi caccia;
po’ inveci mi va ‘cconta comu sc’erunu li fatti.
Ci era l’unu e ci era l’atra e ce t’è ca succitiu:
stu Oresti era lu figghiu di la nunna ca poi è ccisu,
ma la mamma sua prima era ccisu lu maritu:
Agamennuni mi pari, si chiamava lu curnutu.
E alla fini ti la storia, doppu tanta tribbulari,
Lu pirdonu ebbi Oresti e scansau lu Tribbunali!
Alessandro Caiulo