di Marina Poci per il7 Magazine
Ad alimentare il cliché stantio dell’accademico rinchiuso nelle segrete stanze del sapere e dell’archeologo con la testa affondata negli scavi, proprio non ci sta. Così come non gradisce accostamenti improbabili tra il personaggio cinematografico di Indiana Jones e il ruolo dell’archeologo nell’attualità (“Noi siamo scienziati, non cacciatori di tesori”).
L’olandese Gert-Jan Burgers è professore ordinario di Archeologia Mediterranea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Vrije Universiteit di Amsterdam, coordinatore del Progetto Paneuropeo Heriland, direttore scientifico del Parco Archeologico di Muro Tenente e, da qualche mese, anche del Museo Archeologico di Francavilla Fontana. Ma è, soprattutto, fulgido interprete di un’archeologia contemporanea che, partendo dai siti, allarga il suo sguardo ai territori, cercando di immaginarne le potenzialità di sviluppo socio-economico e studiando le implicazioni che i beni archeologici hanno sulle comunità.
Da 35 anni amante della Puglia (e del Brindisino in particolare), dal 2018 il professor Burgers è orgoglioso cittadino onorario di Mesagne, città che ama e alla quale sente di appartenere malgrado le sue origini siano altrove (“dopo questo riconoscimento, ovunque io vada, mi sento un po’ come una specie di ambasciatore della civiltà messapica”, dichiara con soddisfazione). Figlio dei primi scambi di un Progetto Erasmus ancora agli albori, è artefice di un approccio pionieristico all’archeologia che, senza abbandonare il rigore che la caratterizza come scienza, intende mettere a sistema le risorse culturali più diverse per aprirsi verso una visione polifunzionale delle aree di studio e di indagine.
Volendone ricostruire l’esperienza professionale attraverso le due grandi direttrici viarie che attraversavano la Puglia nell’antichità, potremmo dire che il percorso del professor Burgers si estende dal tratto salentino della via Traiana (che passava per Valesio nei pressi di Torchiarolo, sede del suo primo scavo) alla via Appia, per la quale è attualmente coordinatore di “Appia Project”, un progetto tendente alla valorizzazione dei territori brindisini attraversati dalla Regina Viarum (da gennaio a giugno promosso attraverso una serie di webinar che vedono la partecipazione anche dei sindaci dei comuni coinvolti).
Ricorda il suo primo scavo?
“Certamente, lo ricordo come fosse ieri. Al mio primo scavo ho partecipato nel 1986 da studente, a Valesio, proprio nel Brindisino. Sono arrivato qui in seguito a uno dei primi progetti Erasmus. Il mio professore, Douwe Yntema, aveva dei contatti con l’Università di Lecce, in particolare con il professor Francesco D’Andria, così ho colto con entusiasmo questa possibilità. Abbiamo portato alla luce un sito meraviglioso, uno dei più belli nei quali abbia avuto la fortuna di lavorare. Eravamo circa trenta studenti, olandesi e italiani. Abbiamo messo in evidenza la bellissima struttura di un impianto termale romano, oltre a quello che era rimasto della vecchia città messapica. Da quel momento, il mio desiderio di conoscere la Puglia è andato crescendo e non si è limitato soltanto all’antichità, perché nel corso degli anni mi sono innamorato completamente di questa regione, approfondendo le tradizioni più recenti del Salento e impegnandomi per la valorizzazione del territorio. Posso dire di essermi sdoppiato: da una parte lo studio archeologico, che non ho mai abbandonato, dall’altra l’amore per lo stile di vita dei salentini e la curiosità per le infinite possibilità di crescita che intravedo in questo posto stupendo”.
Prima di arrivare in Puglia, conosceva la civiltà messapica?
“No, purtroppo non la conoscevo affatto. L’Olanda è da sempre molto attenta al mondo classico greco-romano, ma devo ammettere che – prima che il nostro gruppo di studio venisse in Salento – in pochissimi parlavano dei popoli indigeni dell’Italia meridionale. Io appartengo ad una generazione di archeologi che ha voluto andare oltre, non focalizzandosi soltanto sull’antichità classica, ma provando a indagare in che relazione fossero le due grandi civiltà che hanno colonizzato la Puglia, cioè Greci e Romani, e i popoli che vivevano in Puglia prima del loro arrivo”.
È questa la nuova frontiera dell’archeologia: non tanto e non solo i monumenti e i reperti, ma anche e soprattutto i rapporti umani, economici, sociali, politici.
“È esattamente così. Ed è questo l’aspetto che più mi affascina dell’archeologia. Specialmente nell’ultimo cinquantennio, siamo passati dall’archeologo come studioso che si concentra sui monumenti e sui reperti all’archeologo che indaga i rapporti tra uomini, tra classi sociali, tra popoli. A me, come studioso, non interessa tanto sapere come i Romani costruivano gli edifici termali o in che modo coltivavano la terra. Ciò che voglio capire, attraverso ciò che porto alla luce, è quali fossero i rapporti tra città e campagna, tra uomo e donna, tra governanti e governati. Ad esempio, con i Messapi i Romani non sono stati dei campioni di simpatia e di delicatezza: li hanno sottomessi, li hanno decimati, li hanno piegati al loro sistema sociale. Trovo molto più interessante indagare questi aspetti, piuttosto che restare legato al reperto in senso stretto”.
In questo senso, potremmo parlare di archeologia non come fine ultimo della ricerca, ma come mezzo per arrivare ad un’indagine più completa sull’uomo?
“Sì, io ci credo fortemente. Anzi, è questo il senso della mia professione ed è anche il punto di vista che cerco di trasmettere ai miei studenti e alle persone con cui collaboro. Cinquant’anni fa era impensabile per un archeologo interessarsi delle comunità locali del presente, mentre adesso anche questi profili costituiscono oggetto delle nostre ricerche. In questo momento stiamo conducendo delle indagini antropologiche a Latiano e a Mesagne, cercando di analizzare quali siano i bisogni e la percezione della popolazione locale in rapporto ai beni culturali che insistono sul loro territorio”.
È questa la ragione per cui nei suoi interventi lei parla spesso della figura dell’archeologo come di un ponte tra passato, presente e futuro?
“Certo, l’archeologo moderno non può permettersi di restare nel passato. La nostra scienza non è più soltanto il racconto di un tempo che è stato, è diventata uno strumento per capire il presente e, soprattutto, per programmare le future opportunità di sviluppo del territorio. Di questa visione è un bell’esempio l’Appia Project, in relazione al quale il nostro compito è valorizzare il passato per pianificare il futuro. È nostra intenzione coadiuvare i comuni della provincia di Brindisi interessati dal passaggio della Via Appia a realizzare un piano strategico che coinvolga i territori per migliorarne le prospettive di sviluppo”.
A proposito di questo progetto, lei ha recentemente scritto che “La Via Appia è connessione, apertura al mondo, dinamismo e innovazione”: in quale modo una strada costruita a partire dal 312 a.C. può essere considerata un esempio di innovazione?
“Penso che il discorso vada affrontato sul piano simbolico. La Via Appia, quando fu concepita, era un progetto tecnologico all’avanguardia. Possiamo definirla la prima superstrada che sia mai stata costruita e, considerata la lunghezza del tratto, fu un lavoro eccezionale. Ma non solo: attraverso la Via Appia, con l’intensificarsi dei traffici commerciali, arrivarono nel mondo romano una serie di altre innovazioni. Se questa visione in chiave innovativa della Via Appia venisse abbracciata anche ai nostri giorni, allora potremmo realmente sperimentare un metodo di lavoro rivoluzionario nell’archeologia. L’esperienza di Muro Tenente, che io vivo come un laboratorio di idee e non solo come un sito archeologico, ci fa capire come testare nuovi metodi di gestione dei beni culturali che implichino un coinvolgimento attivo della cittadinanza, dia ottimi risultati per lo sviluppo socio-economico di un territorio”.
In questi anni di collaborazione, ha riscontrato differenze di approccio tra lo scienziato olandese e quello italiano oppure i due metodi di lavoro con il tempo si sono contaminati?
“Si sono veramente contaminati a vicenda, particolarmente in Puglia, che è stata una delle prime regioni dove si è veramente respirato un clima di innovazione nella scienza archeologica. Questo dipende certamente dall’atteggiamento di apertura dei professionisti pugliesi, ma anche dal fatto che molti studiosi e professori pugliesi, tra cui mi piace citare il professor Giuliano Volpe dell’Università di Bari e lo stesso professor D’Andria dell’Università di Bari, hanno valorizzato gli aspetti più moderni della ricerca, tra cui una visione internazionale e dinamica, creando dei legami che durano tuttora. Tra l’altro, se è vero che io rappresento l’aspetto internazionale di questa collaborazione, mi sento comunque fortemente radicato nel brindisino e mi rendo conto che la contaminazione dei metodi di studio e degli stili di vita ha agito prima di tutto su me stesso”.
Ad un ragazzino che, studiando la storia, inizia ad avere curiosità per l’archeologia cosa sente di dire?
“Dipende dall’età. Per quella che è la mia esperienza, sicuramente ai bambini sotto i dieci anni si può ancora parlare dei miti classici e delle grandi battaglie della storia greca e romana, perché sono più aperti alla meraviglia. Per i ragazzi più grandi è diverso: tendenzialmente credo che il modo migliore per evitare che la curiosità si spenga è quello di utilizzare un linguaggio che conoscono e che sono in grado di capire. Parlerei di archeologia come scienza innovativa e dinamica, cercando di far capire loro che la professione dell’archeologo non ha niente a che vedere con i film di Indiana Jones. Quando passeggio per Mesagne, soprattutto dai più piccoli che magari mi hanno conosciuto per qualche laboratorio a Muro Tenente, spesso mi sento chiamare “Indy”, il soprannome che Indiana Jones aveva nei film. Ecco, noi dobbiamo sforzarci di trasformare quell’immagine (che in una certa misura ci torna utile, perché all’inizio stimola la curiosità per questi argomenti) e avere il coraggio di parlare di archeologia come scienza e non come avventura”.
Altrimenti la figura dell’archeologo rischia di sovrapporsi pericolosamente a quella del tombarolo…
“Cosa che dobbiamo assolutamente evitare. I tombaroli sono il primo tassello di un sistema mondiale di speculazione sulla storia e sull’arte che noi tutti abbiamo il dovere di impedire. Il primo modo per interrompere le loro attività è quello di creare conoscenza, perché dalla conoscenza deriva il rispetto per il bene comune, e di sensibilizzare la cittadinanza, perché certi comportamenti non siano più tollerati. So, proprio in virtù dell’esperienza maturata a Muro Tenente, che questa è la strategia vincente. Durante i primi anni di scavo, infatti, siamo spesso stati preceduti da persone che scavavano per vendere i reperti a collezionisti privati o a grandi musei. Noi entravamo nei campi e loro ne uscivano. Non appena vedevano arrivare i nostri archeologi, si allontanavano in fretta per non farsi riconoscere. Poi, con il passare del tempo, le stesse persone hanno trovato il modo di farci sapere che non avrebbero più toccato il sito: avendo sperimentato la qualità del nostro lavoro, hanno sviluppato una forma di rispetto che ha poi impedito di ripetere quel saccheggio”.
Sull’Appia Project c’è molta attenzione da parte di politici, amministratori e operatori culturali in senso lato. Da archeologo, lei cosa si aspetta?
“Tutto dipende da noi. In questo momento lavoriamo ad un protocollo d’intesa tra Comuni, Sovrintendenza e Università. Se con questo riusciremo a fare “da microfono” al progetto che coinvolge la Via Appia, sposando le esigenze della scienza archeologica con quelle del rilancio delle comunità locali, penso che potrebbe venirne fuori qualcosa di molto bello. Ricordo che stanno per passare due treni che non possiamo perdere, la candidatura a sito Unesco e i finanziamenti europei: posso dire che stiamo lavorando per far salire su questi due treni i territori interessati dal passaggio della Via Appia”.