Largo Pino Indini, quando le persone diventano luoghi

Non posso nascondere una particolare partecipazione emotiva, nel raccontare il luogo che visito questa settimana. È questa la prima tappa di un cammino tra le vie, le contrade e le piazze della città capoluogo.
Un modo per omaggiare il tempo che ci chiude ai viaggi lontani, ma ci apre alla riflessione di ciò che ci è vicino e magari, coperto da una coltra di noia, non percepiamo più.
Raggiungo facilmente un posto ai margini sud occidentali della città. Dove a pochi metri scorre il canale Patri-Palmarini ed il ricordo delle terre destinate alla vigna, si alternano, nella memoria di ampie distese di carciofi.
Decido di partire da qui e non immaginavo che questo sarebbe indentificabile come il cuore della brindisinità, quel frammisto culturale e di usanze ed abito mentale, che fa del brindisino un caso antropologico a parte, non integrato nel territorio salentino, men che meno in quello pugliese.
Titolare di grande energia, incapace di trasformarla in opportunità.
Abitoqui è anche questo, narrazione di luoghi e persone, di una città che vagheggia futuro, ma come l’angelo della morte di Paul Klee, gli va incontro voltandogli le spalle.
Nelle orecchie e negli occhi lo ricordavo diverso, e pensavo “tra se essè” come avrebbe detto lui, se gli somiglia questo largo, che interrompe il flusso del traffico cittadino di periferia tra via Edoardo Dalbono pittore partenopeo ed il più celebrato Leonardo Da Vinci a cui nel quartiere, dedicato agli artisti d’arte figurativa, è addirittura titolato un lungo viale.
Al centro del largo Pino Indini scrittore e poeta – Brindisi 1934-2006, un rondò è l’unico elemento che risalta ed emoziona: qualche pianta di vite ad alberello un paio di alberi, dei cespugli di rosmarino ed una pianta di fichi d’india su fondo brecciato bianco.
Pare poco, pare fluttuare nell’immaginifico mondo che non c’è più, quello che stentate voci locali declinano nel motto “’nc’era na vota Brindisi, piccatu ca”.
Verrebbe voglia di mettere orecchio e sentir apparire, dal frastuono del traffico, lo zoccolio di un cavallo e lo stridente rumore del suo traino, (“travino”, avrebbe detto lui) intento a trasportare uva dalle vicine vigne.
Non è così e l’isola verde, concepita bene ed altrettanto bene realizzata, è fotografica icona di un passato da non dimenticare, di un passato da cui trarrebbe vitalità la nostra responsabilità.
I profumi ed i colori, di questo cerchio verde, cangianti al cambiare delle stagioni, riproducono magia e pare di essere altrove, in un “altroquando” possibile e vero, non necessariamente alternativo, ma incardinato, come fosse pietra preziosa, in un territorio dalle mille risorse.
In questo turbinare di pensieri Pino Indici c’è, c’è con tutta la sua carica di profondo cultore della lettere e della poesia.
Attento ed arguto osservatore della realtà, tanto da trovarne sintesi in un personaggio letterario, Coco Lafungia, partorito dalla sua genialità e che è divenuto emblema di una identità tutta brindisina, giocata sul filo dell’ironia e della grassa e beata ignoranza.
Indini sarebbe stato meravigliato come il suo personaggio, ad oggi, potrebbe essere interpretato come il nonno di tutti gli webeti brindisini. Lui, Coco Lafungia, era divenuto negli anni ’80 il “Pasquino brindisino”, scriveva lettere ai giornali ed agli uffici, ai potenti e ai politici, in un italiano sgrammaticato partorito dal dialetto di cui ogni tanto offriva scivolate di pillole argute.
Sono questi i pensieri che mi affollano la mente, mentre guardo l’intorno e se mi piace il siparietto ambientale, è facile leggere che l’intorno è ancora molto da concepire, figurarsi a realizzare
Sant’Elia è quartiere recente e qui si addensa il più variegato spaccato sociale cittadino. Buono il rapporto tra spazio dedicato al verde e quello abitativo, scarso il contributo dei servizi collettivi ma consistente l’offerta commerciale.
L’identità del quartiere non risente affatto della composita e nobile stirpe di pittori, scultori, architetti che hanno reso grande il Belpaese e che qui sono i nomi di strade e piazze.
Al centro del quartiere c’è il brindisino più eccelso, Giulio Cesare Russo, fra’ Lorenzo da Brindisi, cui è titolata la parrocchia e da qualche settimana, ad altra eccellenza di questa città, un largo Pino Indini, indubbia eccellenza brindisina del XX secolo.
È stato Accademico di Merito e Medaglia d’Oro della Presidenza della Repubblica. Un suo volume di poesie, recensito da Evgenij Evtusenko, è stato tradotto in lingua russa e numerosi suoi scritti sono inseriti in svariate antologie italiane e straniere.
Vincitore di numerosi premi letterari in tutte le regioni d’Italia per la poesia e la narrativa e, proprio per la sua intensissima attività culturale e per la copiosa produzione editoriale, fu eletto anche cittadino dell’anno.
Con un sì all’unanimità del consiglio comunale, nel marzo del 2019 decideva di intitolare “Una strada, una piazza o comunque un’area di pubblica circolazione del centro cittadino di Brindisi alla memoria del poeta e scrittore Pino Indini”.
Come fosse cartello estemporaneo, che richiama più la dignità di un annuncio di smarrimento di un fido o di un micio, che una targa toponomastica, la titolazione del largo a Pino Indini che, è anonima e lascia interdetti, ha tutto il sapore della precarietà fatta padrona e dalla insicurezza che le fa da damigella.
Non conosco le ragioni, ma fosse pure il Covid-19, che ne ha impedito la cerimonia, non siamo di fronte ad un belvedere né alla luce di quanto avviene altrove, siamo di fronte ad un atto che chiamarlo scempio alla memoria è il minimo sindacale.
Come fosse fatto dovuto e non ricercato e voluto, quella targhetta potevasi certo risparmiare l’epiteto più evidente, d’essere buona solo per constatare il luogo di un incidente, che un luogo da omaggiare, dove sgorga, in chi ne ha memoria, il DNA cittadino, ironico, graffiante, disincantato, votato, per risultante storica, più all’ignave passivismo che all’attivismo dinamico.
Molti avrebbero voluto la sua memoria omaggiata nel centro storico cittadino, meglio nei pressi di Largo Guglielmo da Brindisi, ma non so quale volontà l’ha destinato a resistere all’oblìo in questo angolo di periferia, che a pensarci bene, forse è la migliore collocazione, tra la gente che passa, le auto che sfrecciano e quell’isola di pace che se trattata con cura diverrebbe, come tante altre oasi verdi cittadine, luogo di relax ed immaginazione.
Non contro lo stress della vita moderna, come recitava lo slogan di un amaro al carciofo, altra eccellenza brindisina, di cui abbiamo dimenticato la forza, ma per riconnetterci alle radici culturali e alla loro energia, che non abbiamo ancora imparato a gestire a vantaggio della comunità e trasformare in opportunità per tutti.
Lo scrittore, il poeta è stato surclassato in notorietà dalla sua creatura letteraria di cui esiste anche una biografia da cui è giusto rilevare i dati salienti.
“Coco si unì ad un circo equestre di passaggio da Brindisi. Girovagando per svariati paesi, Coco imparò a fare l’uomo proiettile, l’incantatore di serpenti e il mangiatore di fuoco, ma, proprio quando si prospettava per lui una brillante carriera circense, venne sorpreso a trombare con la donna-cannone, moglie del proprietario del circo che, dopo averlo frustato a sangue, lo scacciò a pedate.
Vagabondò per diversi anni facendo di tutto per sopravvivere, dal finto prete all’indovino, dal rappresentante di una ditta di preservativi usati al venditore di banane raddrizzate industrialmente, dall’acchiappa mosche per una nota marca di insetticidi al procacciatore di ratti per una famosa pellicceria.
Renitente al servizio militare di leva, subì il carcere militare di Gaeta per 24 mesi, ma proprio questa lunga detenzione gli fu provvidenziale, in quanto prese a leggere e studiare tenacemente, fino a diventare “un persono strovito e coltivato” o, come egli stesso si definisce, un “autodattero”.
Scontata la pena cominciò a collaborare a diversi giornali e le sue “lettere” al vetriolo divennero subito famose, al punto che furono raccolte e pubblicate in volume. Fu questo l’inizio della sua carriera di “scrittoio” che doveva portarlo a pubblicare una ventina di libri di grande “su cesso”, tradotti anche in papuasiano, in congolese e in neozelandese.
In età matura ha fatto ritorno a Brindisi ed ha messo su famiglia portando all’altare Carmela Voccaperta che gli ha dato due figli, Annita e Frangesco: vive di una modestissima pensione che, a volte, riesce ad integrare con i proventi dei propri scritti brindisini”.
Ho conosciuto Pino Indini, frequentavo la bottega culturale di quel periodico locale e casa editrice, di Lionello Maci, suo sodale ed intimo compare.
È riconoscenza, la mia che si genera nel portato di quel tratto culturale che gemmò tanti anni fa, nella redazione de “L’Eco di Brindisi” di cui immodestamente son figlio anch’io e loro due maestri a loro insaputa.
Già dipendenti da “lapsus calami”, partecipai anche io al bisogno di dar sfogo alle verità più impertinenti pubblicando “Sango” che riecheggiva “Tango” il settimanale satirico di Sergio Staino.
Risale a quel tempo la scrittura di una ode alla città “Brindisiade” che Pino, vergò intingendo la penna nel sangue dell’ ironia, alternativamente intinta nel nero profondo dell’inquieto amore per “Brindisi, bedda mia, Brindisi amata”
Recita l’ultimo verso: “Salve città perversa, infame tanto, dall’animo testardo più di un mulo, io ti saluto al fine del mio canto: Brindisi, addio per sempre, VAFFANCULO!!!