Le ostriche brindisine: tanto amate dagli antichi Romani

L’ostrica è il più nobile dei frutti di mare, un alimento di gran pregio da sempre utilizzato nella gastronomia raffinata e particolarmente apprezzato dalle classi gentilizie dell’antica Roma. Definito come il “cibo dei padroni” negli epigrammi di Marco Valerio Marziale (I secolo d.C.), il mollusco marino è stato notevolmente esaltato da grandi poeti e letterati. Ne fu persino interdetto il consumo con la Lex Aemilia (115 a.C.), una legge suntuaria che aveva lo scopo di limitare e disciplinare l’ostentazione del lusso, anche se molto probabilmente la disposizione venne ampiamente disattesa. Seneca si rifiutò di mangiarle, per lui non erano un alimento vero e proprio: “ho rinunciato per tutta la vita alle ostriche e ai funghi: non sono cibi, ma leccornie che si fanno mangiare anche quando si è sazi – cosa graditissima agli ingordi e a chi si rimpinza oltre misura – vanno giù con facilità, ma con facilità si vomitano”.
Plinio il Vecchio dedica a questi ricercati molluschi bivalvi, racchiusi in rivestimenti naturali calcarei di forma ovale e dalla superficie rugosa, ampio spazio nelle sue narrazioni, indicando Brindisi come luogo particolarmente adatto al loro allevamento: nel I secolo a.C. vi fu un considerevole incremento del consumo di ostriche, pertanto la loro produzione si espanse in diverse aree della penisola, compreso il nostro porto, dove venivano allevate su pali per poi essere trasportate sino a Roma ed essere consumate, sia crude che cotte, sulle tavole dei personaggi più in voga dell’epoca, forse anche nelle mense di Giulio Cesare, noto come grande estimatore di ostriche tanto da preferirle a qualsiasi altro cibo. Il prof. Gianfranco Liberati, commentando un noto passo del poeta latino, rilevava che “se le ostriche di Baia godettero rinomanza fino alla guerra Marsica (91 – 88 a. C.), in seguito si affermarono sul mercato romano quelle di Brindisi. Ma data la distanza e il lungo tempo occorrente per il trasporto, che rischiavano di far giungere a Roma un prodotto avariato, si escogitò un sistema che risultò efficientissimo: trasportarle da Brindisi a Puteoli (oggi Pozzuoli), lasciarle per qualche tempo nel lago Lucrino o lago d’Averno, e poi portarle a Roma. La trovata fu apprezzata dai buongustai: addirittura i banchettanti romani riuscivano a distinguere il gusto originario delle ostriche brindisine con l’aggiunta del gusto lucrino, come se esse avessero subito una vera adozione”. Ciò lascia intendere quanto i romani fossero non solo grandi consumatori di questi molluschi, ma anche appassionati ed esperti, tanto da riconoscere tutte le impercettibili sfumature di profumo e di sapore tra un esemplare e l’altro.
Il noto allevamento puteolano, situato nella località di Baia nei Campi Flegrei, era gestito dal ricco ed elegante cavaliere romano Sergio Orata, il primo ad investire su questa attività ricavandone una notevole fortuna grazie all’innovativo sistema di allevamento che permetteva di ottenere ostriche particolarmente carnose, dal colore perlato lucido, dal gusto dolce e ricche di nutrimenti. Anche le ostriche di Brindisi erano considerate prelibate al pari di quelle di Lucrino, la nostra città era già stata indicata come luogo di produzione rinomato dal filosofo greco Xenocrate (III sec. a.C.), che l’aveva commisurata ad altre località dove le ostriche erano particolarmente buone: la foce del Nilo e il golfo della Sirte in Africa, Efeso, Laucade e Azio in Grecia, Nerbona in Francia e Tarragona in Spagna.
Le ostriche brindisine furono ampiamente celebrate da Plinio (che non ha mai nominato Taranto, dove esisteva un noto allevamento così come al Circeo), lo scrittore latino e grande osservatore della natura vissuto nel I secolo le descriveva grandi, succose e saporite: l’ampio specchio di acqua del porto medio di Brindisi, che andava da Bocche di Puglia a Costa Morena e protetto dalle isole Pedagne, poteva contare su un rilevante vantaggio naturale, ovvero la presenza di acqua dolce garantita da alcune sorgenti sotterranee e dai canali di Fiume Grande e Fiume Piccolo, una condizione idonea per la crescita e la riproduzione dei molluschi, favorita anche dalla giusta profondità del mare che permetteva ai raggi solari di raggiungere gli strati sottostanti, ulteriore fattore essenziale per il loro sviluppo. Le ostriche venivano curate in questo ambiente ideale per un periodo compreso tra i tre ai cinque o anche sette anni, si captavano le larve e si facevano crescere sospese su pali di legno infissi sul fondo, con funi tirate da un palo all’altro in cui pendevano canestri, fascine o corde dove venivano in qualche modo riposte o legate le ostriche. In questo modo si massimizzava l’apporto di nutrimenti necessari per una crescita vigorosa delle conchiglie. E’ una tecnica antichissima, ancora in uso sino a pochi decenni fa in alcuni allevamenti italiani, che trova conferma nelle scene riprodotte, in modo schematico, su alcune fiaschette vitree istoriate risalenti al III secolo, su una delle quali spicca la scritta OSTRIARIA. Raggiunta la maturità, le ostriche brindisine venivano poi trasportate a Roma via terra, probabilmente in barili o vasi di terracotta lavati in precedenza con aceto, facendole sostare per un periodo di affinazione nei bacini di Lucrino e Aveno, una tappa fondamentale che permetteva al mollusco di sviluppare tutto il suo sapore e i suoi colori, prima di essere degustate dai ricchi e lussuriosi romani che le consideravano anche fortemente afrodisiache. Queste ostriche, dalla particolare dolcezza e delicatezza, divennero immancabili nei banchetti della Città Eterna, una sorta di moda che generò per alcuni secoli un vertiginoso aumento della produzione, originando accordi economici e rapporti finanziari diretti tra imprenditori brindisini e partenopei.
La presenza più recente di un parco ostreicolo brindisino è testimoniata da una breve notizia pubblicata su un giornale locale nel febbraio del 1903, dove è citato un importante impianto di allevamento di ostriche presente nel porto medio della città, nei pressi dell’isola di Sant’Andrea, gestito da una società di allevatori tarantini rappresentata dal sig. Giovanni Labruna. Il cronista aveva gustato la “qualità sceltissima delle ostriche di Brindisi, forse anche superiori a quelle di Taranto e del famoso Fusaro”. Negli anni questo tipo di allevamento è stato sostituito da quello delle cozze nere, infatti nello stesso specchio d’acqua, sino ali primi anni ’70, si praticava la mitilicoltura su pali di castagno che in tanti ricordano ancora.
Gli estimatori raccomandano di mangiare le ostriche fresche e crude, al naturale, con il loro liquido e senza essere masticate. Sono povere di grassi e ricche di sali minerali, proteine, ferro e calcio con un basso apporto energetico, ma non bisogna mangiarne troppe poiché contengono tanto colesterolo. I primi giorni di gennaio un giovane della provincia di Taranto è riuscito a trovare una perla in un’ostrica acquistata in pescheria, un evento eccezionale quanto rarissimo. La perla si genera infatti da un meccanismo attuato dal mollusco per difendersi dai granelli di sabbia che non riesce a espellere dalla conchiglia.