Marco Di Bello, brindisino dell’anno 2019

Marco Di Bello, 38 anni, è per la redazione de il7 Magazine il “Brindisino del 2019”. Non è stata una scelta legata solo agli splendidi risultati ottenuti nell’anno appena concluso e che lo hanno visto affermarsi ulteriormente come uno degli arbitri più importanti del campionato di serie A di calcio e dirigere al Var la finale del Campionato del mondo under 17 recentemente svoltisi in Brasile. Di Bello, nato e cresciuto al rione Cappuccini, ha mantenuto un legame strettissimo con la sua città nella quale ha deciso di continuare a vivere e in cui è attivissimo come testimonial e donatore al fianco delle principali associazioni di volontariato. Un grandissimo esempio di qualità professionali, sportive e umane che lo rendono degno di rappresentare la sua città in tutto il mondo.
Lo abbiamo incontrato, dopo la proclamazione, per una chiacchierata sul terreno dello stadio “Franco Fanuzzi” dove si allena quotidianamente in vista degli impegni di campionato. Domenica ha arbitrato all’Olimpico Roma-Torino.

Ha scelto di rimanere a Brindisi nonostante logisticamente non sia la città più adatta per gli spostamenti che deve affrontare ogni volta che va ad arbitrare, anche perché pur essendoci un aeroporto immagino che debba comunque effettuare quasi sempre uno scalo prima di raggiungere la città in cui si svolge la partita.
“Vivo più in aereo che a casa mia. E’ vero, mi sposto quasi sempre facendo scalo a Roma, anche per le trasferte all’estero, non essendoci da Brindisi voli diretti per Francoforte o Monaco è sempre via Roma. Però Brindisi per me è tutto e sopra tutto: famiglia, genitori (la mia famiglia è radicata qui a Brindisi), amici, polo di allenamento, sezione arbitri. Poi portare il giro il nome di Brindisi legato al mio cognome, leggere Di Bello di Brindisi…”.
Quest’anno ha arbitrato anche in Brasile, al var, deve essere un’emozione speciale sentire anche dagli altoparlanti, così lontani dal nostro continente, il suo cognome e quello della sua città.
“E’ uno spettacolo, qualcosa che ti inorgoglisce tanto. Sì, il sacrificio di qualche volo in più, ma vivo talmente bene qui che non ho nessuna intenzione di spostarmi. Amo Brindisi”.
Generalmente nello sport sono gli atleti quelli che diventano idoli per i ragazzi. Lei invece, anche e soprattutto qui a Brindisi ma non solo, è diventato un personaggio nonostante abbia un ruolo per definizione fuori dalla competizione, non sia un goleador, non vinca partite.
“Non essendo attore protagonista, quello che fa il gol, è chiaro che è un po’ strano. Però è una cosa bellissima quando per strada ti riconoscono, ti chiamano, magari i bambini si avvicinano per una foto o un autografo. E’ una cosa che i primi tempi mi lasciava veramente interdetto. Mi chiedevo: ma veramente sta succedendo? Invece ora che accade abbastanza frequentemente, è un momento che mi rende felice”.
Perché poi gli arbitri fino a qualche anno fa erano abbastanza estranei ai grandi palcoscenici. Anche quelli più famosi non avevano generalmente una grande visibilità. Invece voi siete riusciti a costruirvi un ruolo anche fuori dal campo.
“Sicuramente le televisioni aiutano tanto, perché ormai in qualsiasi momento della settimana accendi la tv, guardi le partite, vedi arbitri anche inquadrati tanto durante l’ingresso in campo o mentre effettuano una revisione var a centrocampo, hai la telecamera un minuto addosso quindi è chiaro che tutti cominciano a riconoscerti fisicamente. Poi io nella mia città partecipo a tante iniziative”.
Intanto si sta dedicando molto (lo si vede dai comunicati che invia alle testate giornalistiche) a far crescere la sezione locale degli arbitri, sfruttando la scia che ha creato potrebbe nascere una “scuola Di Bello”.
“Ci stiamo provando, con il presidente Pasquale Santoro, con la dirigenza, il consiglio direttivo e qualche ragazzo della mia età e che non arbitra più. Stiamo provando a trovare il nuovo Di Bello, anche perché se Dio vuole, tra sei-sette anni io avrò finito. Oggi qui eravamo in cinque ad allenarci, anche nei giorni di festa, sono venuti i ragazzetti a correre con noi, insomma stiamo provando a fare qualcosa”.
E poi c’è il suo impegno nel sociale. Non è automatico né scontato che un personaggio pubblico si dedichi con tanta passione a iniziative di natura benefica, per altro concentrandole sulla sua città.
“Sono da un anno e mezzo testimonial dell’Associazione italiana contro le leucemie. Conoscevo la presidentessa Carla Sergio perché siamo cresciuti insieme da ragazzini al rione Cappuccini, ci incontrammo per caso a una festa a Tuturano, lei si avvicinò, facemmo una chiacchierata e mi propose la sua idea. Io ho colto al volto l’invito ed è nato questo progetto, con uno slogan creato ad hoc, “Di Bello c’è la vita”, che ha preso tanto. E quindi affianco la mia immagine alle loro iniziative di raccolta fondi: dalle stelle di Natale ad altre meno famose. Periodicamente poi mi reco in ospedale, nel reparto di Ematologia, a fare due chiacchiere con i pazienti in day-hospital e con quelli ricoverati. Questo è il progetto più importante. Poi sono anche tipizzato Admo, l’ho fatto tre-quattro anni fa, e sono donatore Avis. Inoltre cerco di dedicarmi a tutte le iniziative in cui posso essere utile, come andare a parlare con i ragazzetti nelle scuole calcio, a insegnare il rispetto delle regole, dell’avversario, dell’arbitro, mi trovano sempre disponibile, nonostante il tempo sia limitato, sono sempre felice di partecipare”.
Ecco, le regole: secondo lei i ragazzi delle nuove generazioni sono disposti ad accettarle, al di là di quelle calcistiche o sportive, come approccio culturale?
“Come approccio culturale no, probabilmente rispetto alla nostra generazione è cambiato tanto. Però essendo padre, sono convinto che i genitori, gli educatori, i maestri delle scuole calcio possano e possiamo fare tanto. Quindi secondo me dipende da noi. Prima di tutto in casa, poi a scuola, poi nello sport. E’ chiaro che il loro approccio non è spesso sensibile al rispetto delle regole perché la società è cambiata e i tempi sono cambiati. Però secondo me noi possiamo fare tanto affinché tra dieci anni i nostri figli tornino ad essere come eravamo noi vent’anni fa”.
Qui siamo sul terreno del Fanuzzi, il campo sportivo del Brindisi. Lei in questo momento è la massima espressione del calcio brindisino, ma dietro c’è un vuoto di decenni, non esiste una squadra professionistica. Per il Brindisi sembra una condanna a fine pena mai quella di rimanere nelle categorie cosiddette minori, la serie B e la C1 la ricordano quelli di una generazione fa. Eppure il calcio quando arriva a certi livelli è un ottimo strumento promozionale. Pensa che sia una cosa patologica per questa città?
“Le squadre di calcio fanno da traino a tanto, anche all’economia perché ti arrivano in città società che pernottano, che stanno due-tre giorni, arrivano tifoserie, quindi è chiaro che sarebbe un bel supporto anche per la nostra economia. Io ho 38 anni e purtroppo la squadra di calcio del Brindisi non l’ho mai vista oltre la serie C. Purtroppo. Ora non so se esiste una ricetta che possa essere seguita per riportarla a livelli che siano consoni a una città come la nostra che meriterebbe minimo la serie B. E non si riesce non so per quale motivo. La speranza e l’augurio che posso fare all’attuale dirigenza, ai tifosi e al tecnico (che tra l’altro conosco perché l’ho arbitrato tanti anni fa quando era al Taurisano) è quella di tornare quantomeno subito in serie C e poi puntare a qualcosa di più importante”.
Quando si trova nel resto d’Italia o all’estero, e le capita di consigliare a qualcuno di venire a visitare la sua città, cosa evidenzia di positivo per convincerlo a farlo davvero?
“Io sottolineo sicuramente tutte le cose positive che abbiamo e ne abbiamo anche noi. Magari non siamo bravissimi a venderle però ne possediamo tante. Venite a Brindisi perché abbiamo un lungomare che ci invidiano, un centro storico con diverse bellezze da ammirare. E’ chiaro che abbiamo poi tutta una serie di cose che potrebbero essere fatte meglio e in quello serve però l’impegno di tutti i brindisini per far sì che la nostra città svolti definitivamente e possa raggiungere standard più elevati”.
E invece se fosse un politico e avesse la possibilità di intervenire in qualche maniera o incidere sul destino della città su cosa andrebbe a puntare subito?
“Sicuramente il turismo può essere un buon traino, abbiamo il porto, l’aeroporto e quindi la facilità di essere raggiunti dai turisti. Che sia però non solo un turismo di transito, cioè che non si arrivi qui solo per andare a visitare Lecce o Ostuni. Si può organizzare qualcosa per mostrare le bellezze che abbiamo anche noi. Quindi secondo me il turismo può fare da traino a tutto e poi puntare su food, sul vino, abbiamo diverse cantine importanti, magari organizzare anche dei tour nelle aree vinicole. Insomma inventarsi qualcosa che possa riuscire ad attrarre la gente.
Lei ha la possibilità di osservare da fuori Brindisi e i brindisini. Ecco, se dovesse descrivere il brindisino medio come lo dipingerebbe?
“Il brindisino medio è fondamentalmente una brava persona e questo è ciò che percepisco mediamente quando vado in giro e parlo con la gente. Siamo persone di cuore, pronte ad aiutare. Siamo anche tanto bravi a lamentarci, senza poi fare qualcosa per provare a svoltare. Ci lamentiamo di tutto, dei politici, delle cose che non vanno, ma siamo i primi a non agire nel senso positivo e a non essere da esempio per tutti gli altri. Quindi siamo un po’ lamentini”.
Lei è un arbitro terrone. In Italia traspare ancora molto razzismo nei confronti dei meridionali. Le è capitato di percepirne nei suoi confronti in quanto proveniente da una città del sud?
“No, nei miei confronti mai e sono vent’anni che giro per l’Italia. Ho fatto tantissime partite al nord, ma atteggiamento di razzismo mai. Sicuramente insulti, quelli sì e un po’ dappertutto. Insulti che siamo portati a considerare normali anche se normali non sono. Non riesco a invitare facilmente mia madre o mia moglie in tribuna perché comunque è chiaro che non è il massimo stare ad ascoltare per un’ora e mezzo offese nei confronti di un familiare. Quelle offese sembrano fare parte ormai del gioco anche se è una cosa incredibile, senza senso, però esistono. Anche lì, speriamo in futuro di riuscire a debellarle perché sono anacronistiche”.
In questi giorni è in sala il nuovo film di Zalone che racconta dell’altra forma di razzismo, quello nei confronti degli extracomunitari. Voi avete assunto un atteggiamento molto forte e avete linee guida importanti nel caso in cui ci siano insulti nei confronti di giocatori di colore. Accadono frequentemente o stanno diminuendo rispetto al passato?
“Purtroppo quest’anno ci sono stati diversi episodi che fortunatamente sono stati portati alla ribalta e sottolineati in maniera importante. In serie A la Lega e noi della Can abbiamo assunto una posizione netta per combattere il razzismo negli stadi. Noi siamo autorizzati al primo episodio a fermarci, a portare tutti i giocatori al centro del campo e far fare un annuncio con l’altoparlante. E nel caso proseguano a decidere con le forze dell’ordine se continuare o meno con la partita. Quindi l’atteggiamento è netto e diretto: noi seguiamo la nostra strada sperando che gli imbecilli – perché altro non sono – finalmente possano andar fuori a vita dallo stadio”.
All’inizio di questa chiacchierata ha detto che tra sei-sette anni Di Bello di Brindisi terminerà la sua carriera. E poi cosa farà?
“Qualcosa ce la inventiamo. Sicuramente nella testa c’è qualche progetto, ne arriverà qualche altro man mano che la carriera volgerà al termine, ma sono convinto che proverò a fare qualcosa di buono, sempre per la mia città. Non vado via, non sarà facile mandarmi via (sorride, ndr). Starò qui e proverò a fare qualcos’altro”.
Quindi ci rivediamo tra una decina d’anni per un nuovo capitolo della sua storia…
“Chissà, magari finisco un’altra volta in prima pagina sulla sua rivista per un altro progetto. Sono convinto che se si semina bene c’è sempre qualcosa di buono da raccogliere”.
E Di Bello.