Maria Rita Greco: una vita da pioniera della salute mentale, tra Basaglia e le sfide cliniche del futuro

Di Marina Poci per il numero 355 de Il7 Magazine
Una pioniera: diversamente non si potrebbe definire la dottoressa Maria Rita Greco, psicologa e psicoterapeuta, da qualche giorno in pensione dal suo incarico di dirigente psicologa dell’unità operativa semplice dipartimentale della ASL di Brindisi, in cui per decenni ha rappresentato un punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro che hanno avuto a che fare con questioni attinenti alla salute mentale.
Pioniera perché, da professionista, ha vissuto le tre mastodontiche riforme che in Italia hanno rivoluzionato sanità, assistenza psichiatrica e diritti dei più fragili, cavalcandone le visioni innovative di equità e universalità: l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, con la legge Anselmi (numero 833 del 1978); la soppressione degli ospedali psichiatrici con la legge Basaglia (numero 180, sempre del 1978); infine, la nuova disciplina per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate (legge numero 104 del 1992).
Greco ha iniziato a lavorare nel novembre del 1986, quando sul territorio sono stati istituiti i primi Centri di Igiene Mentale in applicazione della legge numero 180, che aveva soppresso i manicomi. Di quel periodo ha un ricordo bellissimo, a causa della forte vocazione multidisciplinare che caratterizzava il percorso di assistenza: i professionisti coinvolti (psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, sociologi), pur nel rispetto delle competenze e dei ruoli di ognuno, lavoravano con l’obiettivo comune di attuare nella provincia di Brindisi la riforma Basaglia, interpretando al meglio i principi che l’avevano ispirata e attualizzandone i contenuti (“un compito di cui, io e gli altri pionieri assunti con me, avvertivamo tutta l’enorme responsabilità”, precisa). Dopo l’esperienza estremamente formativa nei CIM, la dottoressa Greco è passata a quello che un tempo era definito Servizio per l’handicap (attualmente si tratta dei centri di neuropsichiatria per l’infanzia e l’adolescenza); dopodiché, è diventata la responsabile dell’unità operativa di Psicologia Clinica, trasformata sette anni fa in unità operativa semplice dipartimentale, a cui afferiscono tutti gli psicologi del Dipartimento di Salute Mentale. È al termine di questo incarico che, con il bagaglio di esperienze accumulate e con profonda gratitudine nei confronti dei colleghi illuminati con cui ha condiviso le realtà lavorative in cui ha operato, si sente pronta a tracciare un bilancio sullo stato dell’arte dell’assistenza psicologica e psichiatrica sul territorio e nel Paese.
Com’è cambiata, da quando lei ha iniziato ad oggi, l’attenzione per la salute mentale?
“La volontà di Basaglia, e della legge che porta il suo nome, era quella di restituire dignità al malato psichiatrico, reintroducendolo nel contesto familiare e sociale attraverso interventi di collaborazione tra servizi psichiatrici territoriali e famiglie. Il rischio che corriamo attualmente è che quella integrazione tra servizio e ambiente venga meno e che quel modello di assistenza sia in pericolo a causa della carenza di risorse umane, che giocoforza limita l’impatto degli interventi, e del ricorso a forme di istituzionalizzazione della patologia (ad esempio ritenendo il ricovero come la soluzione della malattia)”.
In che modo avverrebbe quella che lei definisce “istituzionalizzazione della patologia”?
“Non voglio essere fraintesa: lontana da me l’idea di dire che il ricovero, per determinati casi, non sia indispensabile. Il pericolo che dobbiamo evitare, però, è che le strutture di ricovero rappresentino una tappa obbligatoria del percorso terapeutico e si traducano in forme di istituzionalizzazione, esattamente come lo erano i manicomi, anche se operano con modalità diverse. Io sono orgogliosa di avere vissuto l’epoca che ha rivoluzionato la salute, non solo quella mentale, nel nostro Paese e ringrazio tutti i professionisti con i quali ho condiviso il mio percorso lavorativo teso all’inclusione e al rispetto del paziente. Occorre stare attenti a che non ci sia una recrudescenza della etichettatura del disagio psicologico e della stigmatizzazione sociale. Aspetti che noi, con grande fatica, abbiamo contribuito a superare”.
Come è possibile evitare questo rischio?
“Mantenendo il focus sui servizi che garantiscano l’assistenza territoriale, cioè equipe preparate a occuparsi del paziente nel suo ambiente, e sui progetti terapeutici che, se da un lato prevedono il ricovero per un periodo, dall’altro devono avere chiaro l’obiettivo di reintegrare la persona in famiglia e in società”.
La gestione della patologia psichiatrica è cambiata in questi suoi quasi quarant’anni di professione?
“Per fortuna sì, anche grazie ai nuovi farmaci che, per esempio con riguardo ai quadri psicotici, sono molto efficaci. E anche perché ci sono forme di assistenza, là dove vengono attuate, che contengono i percorsi di cronicità. Dal punto di vista clinico, rispetto ai miei inizi, c’è una forte manifestazione di quadri riferibili ai funzionamenti borderline, che rappresentano la sfida della psicologia clinica del futuro”.
A cosa li attribuisce?
“Culturalmente credo che questa società, con i suoi modelli, agevoli funzionamenti in cui si esprime la non integrazione del sé”.
In termini fruibili cosa significa?
“Significa che il dottor Jekyll il mister Hyde che sono dentro ognuno di noi smettono di confrontarsi e si irrigidiscono sulle loro posizioni. Laddove la persona integrata cerca il dialogo, il soggetto borderline assume posizioni escludenti, che alimentano logiche di guerra. Nella politica, come nella vita quotidiana”.
Com’è cambiato il ruolo dei medici di famiglia nel riconoscimento delle potenziali fragilità psicologiche dei pazienti? La collaborazione con i servizi di salute mentale è proficua o potrebbe migliorare?
“Sicuramente c’è una maggiore sensibilità, sia da parte dei medici di base che dei pediatri. Atteggiamento che rende migliore anche il lavoro degli operatori che si occupano nello specifico di salute mentale: più tempestiva è la segnalazione del professionista di base, più alte sono le possibilità di un intervento efficace. E mi permetto di suggerire, a questo proposito, che un territorio come il nostro ha bisogno di investire molto nei servizi a favore dell’età evolutiva, affinché le segnalazioni dei pediatri sensibili non restino senza un’adeguata risposta. Non possiamo risparmiare su questo”.
A proposito di età evolutiva… Prostituzione minorile, baby gang, hikikomori, dipendenze ad insorgenza sempre più precoce: cosa abbiamo sbagliato? Anzi, cosa stiamo sbagliando? Come possiamo intervenire?
“Il problema è che i modelli culturali attuali non predispongono all’individuazione, cioè alla libera espressione del proprio sé, che è unico e irripetibile. Tutte le agenzie educative devono lavorare in questo senso, perché i processi di individuazione sono fortemente limitati da modelli stereotipati che impediscono la realizzazione del sé più profondo. Bisogna lavorare sull’io dei soggetti in età evolutiva”.
La pandemia è stata un evento fagocitante e totalizzante: dal punto di vista psicologico, quali criticità ha portato ad emersione e quali strascichi ha lasciato?
“Tutti parlano dell’isolamento, ma io lo trovo un aspetto secondario. La verità è che abbiamo vissuto una realtà minacciosa, rappresentata da un pericolo sconosciuto, da cui abbiamo temuto di non riuscire a difenderci. Nell’animo umano si è generata una situazione di allarme durata molto a lungo, che ha prodotto un vero e proprio trauma. Di fronte al trauma, per definizione, il soggetto inizia a funzionare in maniera non integrata, provocando il sopravvento di mister Hyde: maggiore impulsività, aggressività che esce allo scoperto, minore tolleranza degli errori degli altri, bassa soglia di sopportazione delle frustrazioni, dipendenza affettiva”.
Riguardo alla dipendenza affettiva e alla lotta alla violenza di genere, nelle ventenni di oggi sembra che stia maturando una capacità di riconoscere meccanismi tossici mediamente più alta rispetto alle ventenni di qualche anno fa: condivide questa impressione?
“Mi piacerebbe, ma no, non la condivido. Credo che le ventenni del 2024 possano facilmente diventare vittime di alcuni meccanismi, tanto quanto lo sono state le loro madri. Ancora oggi si fa fatica a distinguere l’amore dal senso di possesso. Dovremmo interrogarci sulle ragioni di questa difficoltà. La violenza di genere merita una riflessione su nuove soluzioni, perché è evidente che quelle che stiamo mettendo in campo non sono sufficienti, visto che il fenomeno non accenna a diminuire”.
Negli ultimi quindici o vent’anni, si parla sempre più spesso di counseling e di coaching: come valuta l’impatto sulla salute mentale di figure che praticano queste discipline?
“La loro competenza è molto importante, ma non la ritengo risolutiva nell’ambito della psicopatologia, per trattare la quale non si può ricorrere esclusivamente a figure che motivano al cambiamento o alla scoperta e all’attivazione del proprio “tesoro interiore”. Se c’è una patologia mentale strutturata, che giunge ad una manifestazione clinica, serve la psicoterapia. Disciplina a cui si arriva dopo più di dieci anni di studio e formazione”.
Qual è la prima qualità dello psicoterapeuta?
“Gliene dico due: l’empatia e la capacità di presa in carico”.
Cos’è, in termini pratici, la presa in carico?
“È la sospensione del giudizio sul paziente e il riconoscimento della sua qualità di persona nella sua unicità, al di là di ogni categoria diagnostica”.
Cosa si aspettano le persone che accedono ai servizi di assistenza psichiatrica e psicologica? Si approcciano correttamente alla disciplina o pretendono il miracolo di stare bene dopo un paio di sedute?
“Purtroppo si aspettano il miracolo. Il consiglio che in quattro parole cambi la loro vita. “Dottoressa, posso venire a fare una chiacchierata con lei?”, mi chiedono spesso. Ma lo psicoterapeuta non chiacchiera, offre colloqui clinici. Non esistono formule magiche, fornite dal professionista, per la risoluzione di una condizione di disagio psicologico. Serve mettersi in discussione e compiere un grande lavoro su se stessi. Lo psicoterapeuta è solo un traghettatore”.
Le è mai capitato in questi anni, sfinita dopo una giornata di lavoro? di pensare “chi me l’ha fatto fare?”?
“Qualche volta… Però non devo essere stata troppo convincente, se ho due figli che hanno scelto la mia stessa professione e un marito che, dopo quarantuno anni di matrimonio, è ancora con me!”.
Senza Colonne è su Whatsapp. E’ sufficiente cliccare qui  per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati
Ed è anche su Telegram: per iscriverti al nostro canale clicca qui</a