Messa in latino e bisogno di pregare: la richiesta all’arcivescovo

Scrivo nel giorno che la Chiesa Cattolica dedica alla venerazione della Madonna di Lourdes e si celebra la XXVIII giornata del Malato. Lo stesso giorno del 2013, papa Benedetto XVI, dinanzi agli eminentissimi cardinali, proferiva in latino queste parole: “Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum”: “sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”.
L’espressione “ingravescente aetate” è molto più significativa del generico “età avanzata”. Nel verbo latino “ingravescere” c’è il senso di una progressiva e ineluttabile azione dell’età che “grava”, che “pesa” sempre più sulla persona. Benedetto XVI ha usato questa espressione per dire “ormai è troppo”, “proprio non ce la faccio più”, “le mie forze non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”.
L’auditorio restò ammutolito, e si deve alla corrispondente dell’agenzia di stampa ANSA, tra le poche forse ad aver colto il senso della frase in latino, la notizia che il papa aveva appena dato le dimissioni dalla Cattedra di Pietro.
Il Santo Padre, nella più ossequiosa e celebrata lingua latina, elevava la sua tribolata decisione proclamandola nella lingua dei padri, la lingua della celebrazione liturgica per eccellenza, il latino.
Benedetto XVI sovvertiva una regola, cui pochissimi papi hanno mancato, eppure, con quell’atto dava la stura ad un tempo gravido di forti tensioni che scoppiano proprio a 7 anni di distanza, forse alla fine di un tempo che ha visto i due papi aiutarsi vicendevolmente, ma giungere ad un punto di necessaria separazione, nelle more di un Codice di Diritto Canonico che non regola la figura del Papa Emerito, che lo sveste da un ruolo, non da una missione.
Esce nelle librerie un libro scritto a due mani col cardinal Sarah da cui papa Ratzinger ha preso le distanze, almeno nella firma di coautore, ma è in libreria e in libera consultazione. “Dal Profondo del Nostro Cuore”, il titolo, segna il punto di separazione con Francesco che proprio domani, 12 febbraio divulgherà la lettera enciclica “Querida Amazonia” a conclusione del Sinodo tenutosi nell’ottobre scorso. Tra le riflessioni propongo l’appello di Papa Francesco all’élite che hanno intralciato il cammino post sinodale. Ecco le parole del Santo Padre: “C’è sempre un gruppo di cristiani di “élite” ai quali piace intromettersi, come se fosse universale, in questo tipo di diagnosi. In quelle più piccole, o in quel tipo di risoluzione più disciplinare intra-ecclesiastica, non dico inter-ecclesiale, intra-ecclesiastica, e dire che ha vinto questa o quell’altra sezione. No, abbiamo vinto tutti con le diagnosi che abbiamo fatto e fino a dove siamo giunti nelle questioni pastorali e intra-ecclesiastiche. Ma non ci si chiuda in questo. Mi è venuta in mente una frase di Péguy e sono andato a cercarla. Cerco di tradurla bene, credo che ci possa aiutare, quando descrive questi gruppi che vogliono “la piccola cosa”, e si dimenticano della “cosa”. “Poiché non hanno il coraggio di stare con il mondo, loro credono di stare con Dio. Poiché non hanno il coraggio di impegnarsi nelle opzioni di vita dell’uomo, credono di lottare per Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio”.
All’interno del sinodo si è molto discusso di temi come il sacerdozio femminile e il celibato dei preti, atteso che si vuole riconoscere ai diaconi permanenti il diritto di celebrare messa.
Pochi ricordano, di meno lo sanno e pochissimi lo conoscono il motu proprio “Summorum Pontificum” che il 7 luglio 2007 papa Benedetto XVI ha promulgato in forma di lettera apostolica, circa l’utilizzo della liturgia tridentina, come forma straordinaria del rito romano, emanando sia un’istruzione applicativa molto chiara che una specifica lettera ai Vescovi.
Le due forme della Messa sono sullo stesso piano, ribadisce il Papa e formano le due forme di un medesimo rito, stabilendo per i fedeli, che lo chiedono, il diritto alla Messa antica, considerata tesoro prezioso da conservare.
Con questo documento dichiarava che il Messale Romano di papa Giovanni XXIII, pubblicato nel 1962, “non era mai stato giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restava sempre permesso”. Per l’uso di questo Messale nella prassi, Papa Ratzinger ha emanato alcune norme. Il Messale del 1962, che fino al 1970 era la forma ordinaria della messa del rito romano è riconosciuto come legittima forma straordinaria dell’unico rito romano. Tutti i sacerdoti, di rito latino, hanno quindi il diritto di scegliere il Messale di Giovanni XXIII per la celebrazione senza popolo della Messa (art. 2 del Motu Proprio). Possono anche usare l’edizione 1962 del Breviario Romano (art. 9 §3). Si raccomanda al parroco o al rettore di una chiesa di permettere le celebrazioni pubbliche dell’Eucaristia secondo il Messale del 1962 a favore di gruppi stabili di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica (art. 5 §1) e anche in circostanze particolari come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi (art. 5 §3). Non è obbligato a celebrare egli stesso nella forma anteriore, ma può dare il necessario permesso a un sacerdote idoneo e non giuridicamente impedito (per esempio perché sospeso a divinis) che sia disposto a usare tale forma (art. 5 §4). Può anche, se lo consiglia il bene delle anime, concedere la licenza di usare il rituale più antico nell’amministrazione dei sacramenti del Battesimo, del Matrimonio, della Penitenza e dell’Unzione degli infermi (art. 9 §1).
Voci di critica si elevarono ma pare giusto ricordare la testimonianza dell’allora Cardinal Martini, Arcivescovo emerito di Milano, che disse: “questo motu proprio contribuisca ecumenicamente a favorire il dialogo fra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero”.
In questi anni e sempre più numerosi, gruppi stabili di fedeli in tutta Italia, si riuniscono e pregano secondo il messale del 1962.
Seguendo le norme dettate da Benedetto XVI, il gruppo di fedeli stabilmente costituito nel “Cetus Fidelium” di San Vito dei Normanni, si è rivolto con fiducia al Parroco della Basilica di S. Maria della Vittoria per stabilire la celebrazione della Messa festiva secondo il rito antico. Vi sono stati diversi incontri con il parroco e poi con lo stesso Vescovo Caliandro per domandare che si dessero disposizioni per consentire la celebrazione della Messa antica anche nella nostra Diocesi. Dopo molti rinvii e altrettante promesse, il Gruppo ha formalizzato la vicenda con una formale lettera al Vescovo (inviata anche alla Congregazione per la Dottrina della Fede) in cui si ricostruiva la lunga vicenda, i rinvii, le illusioni e l’opposizione di Mons. Caliandro, in violazione dei diritti dei fedeli che proprio il decreto di Benedetto XVI riconosce e tutela, proprio contro l’ostinato diniego dei Vescovi.
Chi ha amato San Giovanni Paolo II ben conosce la lettera enciclica “Ut Unum Sint” (Perché siano una cosa sola) La ricerca dell’unità, forse sta nella diversità, ma nella forte esigenza di riconoscersi figli di una medesima grande Casa.