“Porto Dio tra i poveri con spirito di servizio e un pizzico di follia”

Di Marina Poci per il numero 397 de Il7 Magazine
Quando il mesagnese padre Renato Maizza ci dà appuntamento telefonico su WhatsApp per raccontarci la sua vita da missionario, in Argentina sono le sei e trenta del mattino: è ancora a casa, ha circa un’ora prima di uscire, immergersi tra la gente e portare Dio in giro per le strade della vicaria. Il suo “hola!” limpido, prorompente, pronunciato con perfetto accento spagnolo, abbatte la distanza geografica nonostante la linea leggermente disturbata. La lenta cadenza latina, mentre spiega come è strutturata la sua giornata tra preghiera, servizio e lavoro, avviluppa chi lo ascolta in un crescendo di “mira”, “porque”, “que bueno” e “por favor”. E poi c’è la sua risata piena, generosa, gorgogliante, che si affaccia tra una frase e l’altra come un intercalare rassicurante tra espressioni del luogo e dialetto mesagnese.
Dopo anni a Torino e nelle Marche, padre Renato è arrivato in Argentina nel 2011, con i missionari della Consolata, per terminare gli studi e completare l’ultima tappa della vita religiosa, il noviziato e i tre anni di professione semplice, che precedono la professione perpetua. Un anno e mezzo dopo è diventato sacerdote: “Dio ha deciso per me”, dice con semplicità, “E sono diventato, come ripete Papa Francesco per spiegare il ruolo del sacerdote, “pastor con olor a ovejas”, pastore in odore di pecore, perché più di ogni altra cosa amo stare in mezzo al mio gregge”. E proprio il Pontefice, che a proposito della sua vita in Argentina ha spesso raccontato di non essere mai riuscito a stare troppo nel chiuso dei palazzi ecclesiastici e di preferire la metropolitana all’auto di rappresentanza, sembra di sentire parlare quando padre Renato spiega la sua vita ai margini del mondo: “Per capire quello che Papa Francesco ci dice, bisogna aver vissuto quello che lui ha vissuto qui: una Chiesa di servizio e non di potere. A volte il massimo che riesco a fare nella mia giornata è impegnarmi perché la gente di una certa strada riceva l’asfalto nuovo o una migliore illuminazione. Davanti a chi è privato delle cose basilari, non basta parlare di Dio, bisogna rendere Dio visibile nella vita quotidiana”.
Il suo è un Vangelo dello sguardo attento e dell’abbraccio accogliente, “camminato” in un “barrio” poverissimo in cui non si limita a elargire doni dall’alto, ma si adopera per creare concrete possibilità di una crescita che sia insieme spirituale e sociale. La sua è una Parola vissuta sulla pelle dei disperati che quotidianamente incontra spostandosi da una cappella all’altra nell’ampio territorio della sua vicaria, Santa Maria Magdalena, che ha un’estensione pari più o meno alla sua Mesagne. E, come Mesagne ha sette parrocchie, la sua vicaria argentina, a quarantadue chilometri da Buenos Aires, ha sette “capillas”, molto distanti l’una dall’altra: Maria de Belen, San Cayetano, Sagrados Corazones, Nuestra Señora del Rosario, Sagrado Corazon, Nuestra Señora de Lujan e, infine, il Centro de Animacion Misionera Sagrada Familia.
Come si svolge la sua giornata?
“Le funzioni principali ce le abbiamo il sabato e la domenica, a meno che non ci siano feste patronali o celebrazioni solenni. Il resto dei giorni sono impegnato nelle due mense, in cui insieme ai volontari cerchiamo di assicurare almeno un pasto a chi non può permetterselo, e nelle scuole: offriamo i locali delle nostre cappelle al Ministero per dare qualche possibilità di studiare a chi non l’ha avuta. Poi ci sono la distribuzione dei viveri nelle sedi Caritas e le attività parrocchiali, prima tra tutte la pastorale giovanile diocesana, di cui sono direttore, e la cappellania Scout”.
Lei insegna?
“No, non sono fatto per stare otto ore al chiuso e seduto. Sono grato a chi si occupa dell’istruzione dei piccoli e degli adulti che, senza la chiesa, non riuscirebbero mai a terminare gli studi. Ma io preferisco la strada, l’incontro con le persone. Le nostre cappelle distano chilometri l’una dall’altra, sto molto in giro. Poi cerco di portare la mia presenza anche negli istituti, spesso chiacchiero con i ragazzi Dopodiché vado al lavoro”.
Che lavoro fa?
“A differenza di quanto accade in Italia, qui il sacerdote non ha uno stipendio. Perciò gestisco un esercizio di libri e articoli religiosi in cattedrale. Alcuni dei giovani che frequentano la nostra pastorale giovanile lavorano con me. Al momento ce ne sono sei”.
Chi frequenta le mense delle sue parrocchie?
“Ospitiamo circa trecentocinquanta persone al giorno, che verso fine mese, quando gli stipendi iniziano a esaurirsi, possono diventare anche di più. Ci sono persone completamente prive di reddito, che mangiano da noi tutti i giorni. C’è qualcuno che, molto responsabilmente, nei giorni in cui riesce a portare a casa la paga di qualche lavoretto saltuario, lascia il posto a chi ha più bisogno. Sono persone che hanno l’esigenza di essere ascoltate, di condividere la vita, a volte soltanto di bere una tazza di mate in compagnia”.
A cosa ha rinunciato per fare il sacerdote in Argentina e cosa ha guadagnato?
“Quando scoprono che sono Italiano, la prima domanda che mi fanno è: ma chi te l’ha fatto fare di venire a fare il prete in Argentina? E io rispondo che, per come sono fatto, in Italia non sarei felice come sacerdote. Sono certo che quello che Dio mi chiede è stare per strada, accompagnare la gente ad accogliere Cristo. Certo, mi mancano moltissimo la mia famiglia e gli amici, ma il mio posto è questo”.
Cosa ha trovato quando è arrivato in Argentina e come è cambiata la sua vicaria in questi anni?
“Quando sono arrivato, ogni cappella faceva vita a sé. Abbiamo cercato di creare una sinergia tra le sette sedi parrocchiali, e parlo al plurale perché non ci sarei mai riuscito senza le persone che hanno sposato questa idea. Il risultato di cui sono molto fiero è l’aver creato una “comunità di comunità”, gruppi di fedeli che pur avendo le loro specificità, vivono con l’unica missione di aprirsi gli uni agli altri. La prima evangelizzazione è questa: creare l’incontro tra fratelli che vivono la stessa realtà parrocchiale e poi tutti insieme aprirci al mondo esterno. Vede, qui la povertà più grande non è la mancanza di cibo, né la povertà spirituale, ma la povertà culturale: si comincia a lavorare da bambini perché studiare è un lusso. L’incontro con la droga, l’alcol, la criminalità e la prostituzione avviene molto presto. Un altro dei problemi più scottanti è costituito dalla violenza domestica e dagli abusi sessuali all’interno delle famiglie. Cerchiamo di lavorare per limitare i danni di questa condizione così complessa, per questo la scuola è importantissima”.
Poco più di un mese fa lei è stato aggredito da un tossicodipendente e spacciatore: cos’è successo e come sta adesso?
“Sto bene. L’aggressione è avvenuta all’esterno di una cappella in cui il parroco precedente aveva consentito a una donna di vivere in chiesa con quattordici cani e a una famiglia molto numerosa di vivere in una delle stanze posteriori, in un ambiente privo di servizi igienici e di riscaldamento. Di fatto tutta la cappella era inutilizzabile. Quando è iniziata la pandemia, abbiamo avuto necessità di creare una mensa presso ogni cappella, per consentire il distanziamento e dare da mangiare a gente completamente sprovvista di mezzi. Con pazienza siamo entrati in contatto con queste persone, abbiamo recuperato gli spazi e ci siamo impegnati a fare avere loro altre sistemazioni, sicuramente più dignitose. Pensavamo di fare cosa gradita, ma non avevamo fatto i conti con uno dei figli di questa coppia che, alle spalle della cappella custodiva e rivendeva moto rubate e aveva creato una vera e propria centrale dello spaccio. Per un po’ non siamo stati disturbati. Poi ci hanno derubato. Mentre eravamo impegnati a riparare i danni del furto, siamo stati raggiunti dal ragazzo: era a bordo di una moto da cui è sceso per darmi prima una capocciata e poi un pugno sul volto. “Questo è per quello che ci hai fatto”, mi ha urlato. Era arrabbiato perché avevamo rotto il suo giro di illegalità impunita. I colpi sono stati dolorosi, ma ne è valsa la pena: oggi in questa cappella c’è una mensa che riceve duecento persone al giorno, una scuola primaria per adulti e una sede della Caritas”.
Che Chiesa sogna?
“Non mi interessa la Chiesa dei perfetti che conoscono la liturgia a memoria tra le pareti della cappella e poi quando escono non sono capaci di portare Dio ai fratelli. Io vivo tutti i giorni una Chiesa fatta di poveri, distrutti, rotti e disperati e credo che sia esattamente questo che Cristo vuole da me: una liturgia incarnata nella realtà, non fatta di incenso e di inchini”.
Insomma, sta dicendo che la mamma dei farisei è sempre incinta.
“Claro que sì! Viviamo una fede disincarnata, fuori dalla storia, lontana dalle persone. È un problema dei cristiani, ma anche di noi sacerdoti. E parlo al plurale, perché nessuno di noi ne è esente”.
È per questo che le parrocchie si svuotano e la gente si allontana dalla fede?
“Anche, ma non solo. La gente si allontana fondamentalmente per due motivi: il primo è che non riusciamo ad attualizzare il nostro linguaggio, per cui ai giovani di oggi sembra che parliamo una lingua morta; il secondo è che parliamo troppo e ci dimentichiamo di essere testimoni, con l’esempio quotidiano, della misericordia di Dio. Il nostro lavoro come Chiesa non è condannare, ma deve essere quello di ricevere e accompagnare. Non è un’accusa ai miei confratelli, è piuttosto un invito a tutti noi e soprattutto a me stesso: io “primero” non sono sempre il testimone che Dio mi chiede di essere”.
Si dice spesso che la frase più bella del Vangelo sia “Eccomi”: se pensa al suo “eccomi”, cosa le viene in mente?
“Il mio “sì” all’inizio è stato molto tiepido, pieno di domande, titubante: era come se dicessi “ti accolgo, Signore, ma non disturbarmi troppo la vita”. Il click del mio “eccomi” è arrivato quando ho rinunciato ae essere il pilota e mi sono lasciato guidare da Dio: è allora che il mio “sì, eccomi” si è trasformato in passione, in desiderio non di essere qualcuno attraverso la Chiesa, ma di servire a qualcuno attraverso la Chiesa”.
Il Vangelo parla di servo inutile: è così che si sente?
“Mi sforzo di esserlo. Il servo inutile è colui che non percepisce un utile dal suo servizio, colui che fa quello che è chiamato a fare in spirito di gratuità, per amore, non per avere dei benefici. Quindi sì, il mio obiettivo, quando mi sveglio la mattina, è quello di vivere la mia giornata come un servo inutile: non mi aspetto niente, solo l’amore di Dio”.
Se le dico la parola “santità” a cosa pensa?
“A una persona che ha scoperto qual è il progetto di Dio sulla sua vita e lo ha assecondato. Nessuna perfezione, solo misericordia. Il mio santo del cuore è mio padre: è una persona che nella sua vita è entrata in chiesa poche volte, ma i valori del servizio e dell’umiltà, di cui parla il Vangelo, me li ha insegnati lui”.
Possiamo dire che siano i suoi talenti? Nel senso che Gesù attribuisce all’espressione talento nel Vangelo?
“In realtà io credo che il mio talento più grande sia l’allegria: saper portare il messaggio di Dio in mezzo alla gente con gioia e, qualche volta, persino con un pizzico di follia”.