Quando i brindisini videro per la prima volta un elefante

Da alcuni decenni vedere nelle nostre città un elefante o di un altro genere di animale esotico non suscita particolare sorpresa. Anche se negli ultimi tempi ne è stato limitato l’utilizzo, è sempre possibile poter osservare da vicino questi esemplari in circhi, giardini zoologici o in allevamenti specializzati.
Ma nel passato non troppo lontano la presenza di un pachiderma nelle nostre zone era considerato un evento eccezionale, tanto da rimanere impresso tra le più curiose e piacevoli memorie dell’epoca. Si legge infatti su una nota del XVIII secolo che “elefanti non se ne vedevano nel Salento dai tempi di Pirro e si può giurare che nessuno li ricordava”. Il riferimento è al singolare episodio che andiamo a ricordare.
Era il mezzogiorno del 7 settembre del 1742 quando nel porto della nostra città fece ingresso una tartana agli ordini del “piloto” brindisino Felice Chisiena “alias di Marro“, la tipica imbarcazione da carico a vela latina faceva parte di un convoglio da qui partito per Durazzo il 20 agosto con numerosi marinai brindisini e dalla sponda opposta dell’Adriatico faceva ritorno. Il piccolo veliero approdò nel porto medio della città nei pressi della spiaggia di San Leonardo, oggi meglio conosciuta come zona Materdomini, proprio di fronte all’isola di Sant’Andrea, dove “subito con ponti fu calato” un imponente esemplare maschio di elefante indiano (Elephas maximus) che da Costantinopoli era destinato al “nostro Re” Carlo III di Borbone. Il timido e disorientato animale, scortato da sei turchi che avevano l’incarico di “governarlo”, fu rinchiuso in “contumacia” – una specie di quarantena – nel giardino dell’antico edificio sacro dedicato a san Leonardo, già Santa Maria Mater Domini da cui il nome a tutta la zona. La notizia dell’insolita presenza di una così rara e meravigliosa creatura si diffuse in tutto il circondario in brevissimo tempo, suscitando enorme curiosità, furono in tanti a voler osservare da vicino il grande mammifero proboscidato giunto dalla lontana Persia, a cominciare dagli ecclesiastici della chiesa e dai pochi residenti nei casali della zona. Il racconto narra che per l’occasione giunse a Brindisi anche “il signor Marchese di Oria colla moglie”, seguirono altri illustri personaggi dell’epoca provenienti da diverse località da tutta la provincia di Terra d’Otranto, come la principessa di Belmonte con il “signor Preside di Lecce Duca di Cerasale”, il figlio della principessa e quello del marchese Chiurli di Cellino san Marco nonché Cavaliere di Malta, così pure il Marchese di Campi. “Ed ogni giorno – si legge ancora nella Cronaca – un’infinità di forestieri da tutte le parti della Provincia” giungevano a Materdomini per ammirarlo.
L’elefante fu fatto credere come dono del sultano turco ottomano Mahmud I al sovrano del Regno di Napoli in cambio di tavole di marmo pregiato, in realtà fu acquistato con denaro della Corte – e dopo laboriose pratiche – dal conte Finocchietti, incaricato borbonico agli affari presso il governo dell’Impero ottomano, su iniziativa del marchese di Salas, allo scopo d’ingraziarsi il re che tanto lo desiderava per il suo Serraglio; secondo lo storico Michelangelo Schipa con questa operazione “si voleva con questo presunto successo in politica estera, rafforzare nell’interno il prestigio del nuovo re Carlo di Borbone”.
Le caratteristiche principali della mastodontica bestia furono dettagliatamente riportate, non senza meraviglia, dal Cronista dell’epoca: “egli è alto palmi 14 e mezzo, lungo 13, largo più di sei (corrispondenti rispettivamente a 3,80, 3,40 e 1,58 metri – n.d.r.), la proboscine è ben lunga sino a terra e più, l’orecchie come due pesce rascie (Razza), l’occhi più piccoli di un cavallo, raso di pelo e di color sorcigno (grigio-cenere), e così la coda, gambe grossissime”. Si cibava di novanta libbre (circa 29 kg) di fieno al giorno e “cannazza, rotola 30 di pane (quasi 27 kg), libre 6 di buttiro, e rotola 4 di zucchero, e tre barili di acqua (oltre 130 litri) e coll’istessa sua proboscine si ciba e beve e coll’istessa dimostra una forza irresistibile, stando sempre incatenato a tre piedi, e quelli turchi che lo governavano, col parlarli, le facevano fare molte operazioni e li temeva ed ubbidiva”. Fu anche descritto in un breve saggio scientifico dall’illustre letterato napoletano Francesco Serao.
Dopo una sosta di oltre un mese, l’elefante fu fatto ripartire per la capitale del regno la mattina del 18 ottobre seguendo una lenta marcia via terra, l’animale infatti non poteva percorrere più di dieci miglia al giorno, poco più di diciotto km circa. Ad accompagnare il pachiderma “sette soldati dell’udienza fino all’altra provincia e così di provincia in provincia sino a Napoli col coronello e sei turchi che lo governano”. Giunse alla Regal Villa di Portici – dove la Corte si tratteneva – l’1 novembre di quell’anno, e nello zoo privato della fastosa reggia fu tenuto con grande orgoglio insieme ad altri animali esotici e feroci (leoni, pantere, struzzi, canguri ecc.).
Anche qui, sin da subito, divenne un’attrazione notevole: migliaia di persone si recavano a vederlo, pagando una mancia al caporale dei veterani dell’esercito che se ne prendeva cura; inoltre veniva fatto sfilare dal re durante le sue parate ufficiali così da poter mostrare con fierezza l’animale, ancora sconosciuto alla maggior parte dei sudditi, fu inoltre esibito nel 1743 sulla scena del teatro San Carlo durante l’opera di Pietro Metastasio “Alessandro nelle Indie”, rappresentazione che riscosse tantissimo successo e grande entusiasmo. L’elefante fece così tanta impressione da essere anche raffigurato in una statua in terracotta di Gennaro Reale e in un dipinto di Pellegrino Ronchi, oggi in mostra nella Reggia di Caserta. Un altro ritratto fu commissionato da Carlo III al pittore Giuseppe Bonito per essere inviato ai propri genitori in Spagna, opera attualmente esposta nel Palazzo Reale di Riofrío nei pressi di Segovia.
Dopo la morte dell’animale, avvenuta nel 1756 e causata probabilmente per una scorretta alimentazione, lo scheletro e l’epidermide furono montati su un supporto metallico ed esposti al Museo Borbonico, dove nei primi dell’ottocento vennero trafugate dapprima le zanne e poi un po’ per volta anche la dura pelle, utilizzata per confezionare le calzature. Lo scheletro nel 1819 fu poi trasferito al Museo Zoologico di via Mezzocannone dove ancora oggi è esposto. Con l’improvviso decesso dell’animale, il militare che lo accudiva dovette tornare ai suoi compiti d’ordinanza, con servizi di guardia e d’istituto come tutti gli altri commilitoni, interrompendo quella vita comoda e oziosa che gli permetteva anche di incassare laute mance, da qui l’origine dell’espressione idiomatica “Capurà’, è mmuort’ l’alifante!” ad indicare la fine di una situazione favorevole. Il detto popolare, citato anche da Benedetto Croce, è ancor’oggi utilizzato nei confronti di qualcuno che continua a vantarsi di una prerogativa che aveva ed ora non ha più, e che pertanto è costretto a tornare ai quotidiani impegni dopo un periodo di occupazioni privilegiate.