Quando il bene è contagioso: la comunità Emmanuel di Matagiola

Mi è capitato del tutto casualmente, alcuni giorni fa, di notare nel bel mezzo della campagna brindisina, fra Brindisi e Mesagne, non lontano da Villa Pignicedda – appartenente un tempo al podestà e benefattore Serafino Giannelli – e dallo snodo SNAM del gasdotto TAP, che sta sorgendo in contrada Matagiola, un ameno viale alberato che conduce, tra ben ordinati vigneti e carciofeti, ad una bella masseria non fortificata, i cui più vecchi corpi di fabbrica dovevano avere all’incirca un paio di secoli di vita, che mi hanno acceso vecchi ricordi.
Si trattava della tenuta di Matagiola di proprietà della famiglia Lenzi, che fra gli anni ottanta ed il primo decennio del nuovo millennio ha ospitato il centro della Comunità Emmanuel destinato all’accoglienza di tossicodipendenti ed alcolisti che, ovviamente, avevano deciso di uscire fuori dal tunnel dell’alcol e della droga.
Contattato Luca Lenzi, il figlio del proprietario Franz ed avuta da lui la conferma che il luogo era quello giusto e che potevo visitarlo, mi sono recato nuovamente sul posto per vedere anche in che condizioni fosse tale struttura dopo alcuni anni di abbandono.
C’è un grande corpo di fabbrica a più piani che ospitava, un tempo, gli alloggi dei ragazzi e degli educatori volontari; quella che un tempo era la casa padronale, di solo piano terreno, confinante con le vecchie stalle; l’imponente ex stabilimento vinicolo/palmento, il cui locale più ampio era utilizzato come sala mensa e riunioni e locali più piccoli ove erano le officine ed i servizi, come ad esempio la lavanderia attrezzata con una moderna lavatrice industriale al servizio dei bisogni dell’intera comunità. Altre costruzioni rurali avevano, probabilmente, conservato l’originaria vocazione dal momento che lavorare la terra, in special modo l’orto ed il frutteto, era uno dei lavori che veniva fatto svolgere agli ex tossicodipendenti per tenerli a contatto con la natura e lontani dalle sostanze stupefacenti. Ancora visibile il campetto di calcio con entrambe le porte che si ergono nell’erba alta. Anche gli sport di squadra come calcio, basket e pallavolo, erano strumenti molto efficaci per riabilitare i giovani ospiti del centro.
Un vero salto al cuore mi ha provocato, girato l’angolo a sinistra della costruzione principale, la suggestiva chiesetta rurale, con tanto di statuetta della Madonna con l’azzurro manto, ed il suo interno addobbato come se il tempo si fosse fermato a quando il padre gesuita Mario Marafioti, storico fondatore della Comunità Emmanuel, vi celebrava la santa messa.
Coinvolgente la grande lastra appesa alla parete con incisa una preghiera decisamente adatta alla missione che si esercitava in questo luogo e che veniva recitata quotidianamente dagli ospiti e dai volontari del centro: “Cominciare è bello, ma solo chi persevera giunge alla meta. Anche se siamo deboli, se siamo caduti, possiamo, dobbiamo, vogliamo ricominciare sempre di nuovo, alzando gli occhi alla cima e rimettendo i piedi sul sentiero, più umili, più pazienti, più volenterosi e decisi. Fino a stasera, fino all’ultima sera. Ascoltando, mentre cala la sera, il grido della terra e della Croce che chiamano, chiamano te”.
Conoscendo la proverbiale riservatezza e ritrosia del capostipite della famiglia Lenzi a rilasciare interviste, e ciò per la sua innata dote di umiltà, mi sono rivolto al figlio Luca per chiedere qualche delucidazione in merito e, con mia somma gioia è stato lui a propormi di organizzare direttamente un incontro con suo padre Franz, che mi accoglie con un bel sorriso che diventa ancora più radioso quando scopre di essere stato amico di mio padre e mia zia in gioventù.
Ci vuole raccontare degli inizi dell’impegno della famiglia Lenzi in favore dei ragazzi e degli uomini con problemi di tossicodipendenza ed alcolismo e della sua decisione di mettere a disposizione la sua masseria in contrada Matagiola per la fondazione della prima comunità Emmanuel in Terra di Brindisi?
“Tutto ebbe inizio quarant’anni fa da un gruppo di preghiera del Rinnovamento dello Spirito a cui avevo aderito con molto slancio, sotto la guida spirituale del padre gesuita Mario Marafioti. La bellezza dell’amore di Dio ci spingeva a pregare e ad amare il prossimo; padre Mario ci fece comprendere l’importanza non solo della fede, ma anche delle opere, senza le quali la fede rischia di essere sterile e ci invogliò a darci concretamente da fare specialmente a beneficio dei più bisognosi.
Bisognerebbe tornare indietro agli inizi degli anni ottanta per comprendere meglio quello che era il problema della tossicodipendenza, specialmente nelle regioni del nord, ma che stava prendendo piede anche da noi. Si trattava di droghe pesanti: eroina su tutte. Le famiglie dei ragazzi tossicodipendenti erano distrutte, affrante, disgregate; non si sapeva ancora bene come comportarsi, il terrore poi della diffusione dell’AIDS aveva creato anche un muro quasi invalicabile e nessuno se ne voleva occupare o sapeva come regolarsi. Una sorta di tabù difficile se non impossibile a vincersi. Dare sostegno a queste famiglie fu quasi come raccogliere un grido disperato di aiuto che nessuno voleva sentire. Iniziammo con dei gruppi di ascolto cui cominciavano a partecipare sempre più famiglie devastate da problemi di tossicodipendenza. Ad un certo punto mi venne naturale e spontaneo mettere gratuitamente a disposizione la tenuta di Matagiola, appartenente alla mia famiglia, dapprima per tenere, con cadenza mensile, degli incontri a cui partecipavano molte famiglie con all’interno problemi di tossicodipendenza, poi, ragionando con padre Mario, pensammo di dotare Brindisi di una struttura, come già la Comunità Emmanuel aveva fatto a Lecce, in cui ospitare questi giovani, ma anche qualche adulto, per aiutarli ad allontanarsi dalla schiavitù della droga o dell’alcol in cui erano caduti.
L’idea che si rivelò vincente fu quella di una comunità stabile, un luogo dove questi ragazzi fossero accolti con amore e senza pregiudizi, un luogo che li potesse tenere occupati e lontani dalla tentazione della droga e, devo dire, che nei circa 25 anni in cui il centro di Matagiola ha operato, di questi ragazzi ne sono passati a migliaia, una media anche di 50 ragazzi contemporaneamente, assistiti, vegliati e curati amorevolmente ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette e dalla A alla Z, dai volontari della Comunità Emmanuel. La cosa bella è che molti di questi ragazzi sono poi, a loro volta, diventati volontari che hanno aiutato i loro coetanei a superare la tossicodipendenza. Una dimostrazione, qualora ce ne fosse bisogno, che il bene è contagioso!”
Per fare quello che ha fatto, immagino, oltre che una grande fede, deve aver avuto il sostegno e l’appoggio anche di moglie e figli: è così?
“Assolutamente si, come famiglia eravamo tutti d’accordo, mia moglie Lida ed i miei figli; altrimenti non si sarebbe potuto fare quello che si è fatto e ti dirò di più: non solo i membri della mia famiglia, ma anche tanti cari amici ci hanno sostenuto in questa missione. Mio figlio Luca, ad esempio, ha coinvolto a sua volta anche dei suoi compagni e fra coetanei era anche più facile entrare in sintonia con i ragazzi ospitati dalla Comunità ed aiutarli.
Devo specificare che i ragazzi non erano reclusi a Matagiola: organizzavamo passeggiate, gite, anche vacanze in montagna sulla Sila; anzi la Sila diventò presto un appuntamento fisso, tant’è che la Comunità Emmanuel riuscì ad avere a disposizione una struttura dove, a turni, potevano passare qualche settimana i ragazzi delle varie comunità che, nel frattempo, sorgevano come funghi non solo nel Salento, non solo in Puglia, non solo nell’Italia meridionale, ma anche nelle regioni settentrionali, dove a darsi da fare erano gli stessi genitori e le famiglie di ragazzi del nord che, ospiti da noi, erano usciti dalla tossicodipendenza ed allora volevano aiutare altri ragazzi a salvarsi”.
Ma cosa avevate in più o di diverso, rispetto alle strutture della sanità pubblica, per venire incontro ai bisogni di questi poveri ragazzi?
“Innanzi tutto la fede. La fede attiva che non può prescindere dall’amore per le persone e poi, all’epoca, non dobbiamo dimenticarlo, nelle strutture pubbliche si tendeva a sostituire l’eroina con il metadone, sicchè, di fatto, si cambiava solo la sostanza da cui il soggetto dipendeva, accontentandosi di un male minore rispetto all’inferno che era rappresentato dall’eroina. Il soggetto drogato avrebbe fatto, anzi faceva, qualsiasi cosa pur di procurarsi la sostanza stupefacente, anche rubare, picchiare ed uccidere, per cui era importante, a nostro avviso, recuperare la persona umana e questo lo facevamo, prima di tutto, accogliendoli ed amandoli, il che li metteva subito a loro agio, li faceva tornare a sentirsi persone e non bestie come, invece, erano trattati dalla società negli anni ottanta e novanta. Dovevano essere prima di tutto loro stessi a tornare ad amarsi ed apprezzarsi per poi capire l’importanza anche di amare e rispettare il prossimo ed aiutarsi a vicenda in questo difficile ma esaltante e dolce cammino: una sorta di ricostruzione o restauro interno che porta al recupero della dignità e dell’autostima perduta.
Quali sono i ricordi più belli, legati a questo impegno, che conserva ancora oggi a distanza di tanti anni?
“Bè, tanti di questi ragazzi, ormai uomini, che sono rimasti legati a me ed ai miei e che ancora, a distanza di anni, magari con le loro famiglie, partono anche da molto lontano per venire a trovarmi e ad abbracciarmi. È accaduto proprio pochi giorni fa che quattro di loro sono venuti per salutarmi, facendomi immenso piacere. La droga uccide innanzi tutto gli affetti e la famiglia, per cui vedere famiglie riunite e ricompattate dopo che un loro membro è uscito dall’incubo della tossicodipendenza o vedere un nostro ex ospite che è riuscito a formare una sua nuova famiglia, è una soddisfazione immensa per cui non smetterò mai di ringraziare il nostro Signore per l’illuminazione che diede quarant’anni fa a padre Mario Marafioti e per la grazia che ho avuto io di poter collaborare assieme alla mia famiglia a questa missione ispirata dallo Spirito Santo.
Purtroppo non sempre è andata bene ed anche se sono centinaia quelli che si sono salvati dalla dipendenza dalla droga e dall’alcol, non posso non pensare anche a quei ragazzi che sono poi ricaduti nella tossicodipendenza e ad alcuni che sono venuti a mancare per l’AIDS”.
Da quasi dieci anni, ormai, il centro di contrada Matagiola è stato chiuso e quello fu, probabilmente, in evento doloroso, ma sono sorti tanti altri centri, anche in provincia di Brindisi, che hanno continuato la via segnata da Voi. Ci vuole parlare di quali furono le ragioni della chiusura?
“Sicuramente c’è stato un cambio della tossicodipendenza per cui l’eroina, con tutti i suoi effetti devastanti, è sempre meno utilizzata. Ora c’è la cocaina di cui fanno ampio uso manager e gente altolocata e le pasticche con cui si sballano, con pochi soldi, i più giovani. Mentre prima il drogato, una volta toccato il fondo, era il primo a voler uscire dalla tossicodipendenza e, in ogni caso, non riusciva a nascondere il suo problema, ora i tossicodipendenti del nuovo millennio non vogliono cambiare vita, gli sta bene dipendere da queste sostanze chimiche che squagliano il cervello, per cui si avverte sempre meno, nella società civile, il bisogno di strutture che ospitino a tempo pieno, per settimane o mesi a seconda delle necessità, chi vuole tirarsi fuori dalla droga.
Altra ragione che ha accelerato la chiusura del centro quasi dieci anni fa, fu l’eccessiva burocratizzazione di tutto: protocolli sempre più stringenti, un gran numero di psicologi ed educatori che avrebbero dovuto prendere il posto dei volontari con cui per un quarto di secolo si era andati avanti in maniera egregia; per cui, giocoforza, si è lasciato il passo a strutture, sempre della Comunità Emmanuel presenti nel nostro territorio, più vicine alle nuove esigenze”.
Sono passati, come ha appena ricordato lei, dieci anni dalla chiusura del centro di Matagiola ma, da quello che so, la vostra famiglia continua nella sua attività di volontariato in favore dei meno fortunati, come le bellissime iniziative, in favore dei disabili, di Suo figlio Luca con la barca a vela: ce ne vuole parlare?
“Dal momento che è presente mio figlio è meglio ed è giusto che ne parli lui”.
Allora, Luca, come continuate ad operare in favore dei meno fortunati?
“Nel 2012, poco dopo la chiusura di Matagiola, abbiamo fondato, con un gruppo di amici velisti, l’associazione GV3, che sta a significare “a Gonfie Vele Verso la Vita”, appunto tre volte la lettera “V”. Mettiamo a disposizione il nostro tempo e le nostre imbarcazioni non solo a beneficio degli ex tossicodipendenti della Comunità Emmanuel, ma anche di altre categorie di persone che hanno bisogno di un aiuto, come possono essere i disabili fisici o psichici ed ragazzini a rischio di devianza, per cui collaboriamo anche con il Villaggio SOS di Ostuni e la Cooperativa sociale Ambarabà di Carmiano. Organizziamo non solo semplici uscite in barca a vela ma a volte abbiamo partecipato insieme a loro pure a regate impegnative come la Brindisi-Corfù e la Barcalona di Trieste. La vela ed il mare sono scuole di vita per cui il ragazzo comprende l’importanza del fare gruppo, del rispettare le gerarchie, le regole e la disciplina, altrimenti non si riesce ad arrivare alla meta ed alla destinazione prefissata: lo stesso vale anche per la vita di tutti i giorni”.
In conclusione di questo incontro, molto coinvolgente ed educativo, non posso che affermare che il bene non solo è contagioso, come ha detto Franz Lenzi nel corso dell’intervista, ma si trasmette anche di padre in figlio!