“Quando il piccolo Kobe giocò a basket con noi in giardino”

Kobe Bryant è stato il simbolo dello sport mondiale per vent’anni e l’idolo di milioni di ragazzi, diventati adulti con il passare della sua brillante carriera, i quali oggi si sentono privati di una delle pagine sportive (e non solo) più indelebili della loro giovinezza, pagine che riempiono il cuore di tutti gli sportivi del mondo, oggi più che mai, raccontabili ad altre centinaia di generazioni future di cestisti.
Kobe è stato anche l’americano “più italiano” nel mondo della NBA, era figlio di Joe Bryant, che ha giocato in Italia dal 1984 al 1991, con le casacche di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggiana. Nelle tribune, durante le partite di Joe, era fissa la presenza di un bambino che attendeva impazientemente l’intervallo lungo di ogni match per imitare quello che suo papà faceva durante i quaranta minuti di gioco; infatti il piccolo Kobe, che parlava benissimo la nostra lingua, a soli otto anni, era già noto a molti spettatori dei palazzetti italiani, aveva delle qualità che nessun bambino di quell’età poteva mostrare con quella disinvoltura, ma nessuno poteva immaginare di avere davanti a sé una futura stella della NBA.
Joe Bryant, assieme al suo bambino che incuriosiva tutti per la sua semplicità ed educazione, ha calcato anche il parquet dell’attuale Pala Pentassuglia (all’epoca si chiamava “Nuova Idea”) con la casacca della Ippodromi Rieti, prima in una partita nel 1984 e poi in un’altra nel 1986, quest’ultima è quella in cui Joe segna il canestro decisivo da metà campo allo scadere, sotto gli occhi di Kobe che aveva appena otto anni, e di fatto condanna la Rivestoni Brindisi alla retrocessione in Serie B. Nonostante questo canestro, uno dei più importanti della carriera di Bryant senior e che, invece, resta una ferita aperta nella storia del basket brindisino, la famiglia Bryant è stata ben accolta da Brindisi, in particolare dalla famiglia di Antonio Corlianò, ex presidente della New Basket Brindisi, che ci ha lasciati nel 2015.
Joe e Kobe, difatti, sono stati accolti a cena, dopo questa partita della stagione 1985/1986, dalla famiglia Corlianò nella casa di Viale Belgio. A raccontarlo è Gianluigi Corlianò, uno dei due figli dell’ex presidente: “Era l’aprile del 1986, ho ancora in mente la sua faccia davanti a me, soprattutto in questi giorni” – racconta emozionato Gianluigi, riferendosi a Kobe Bryant – “suo padre ci fece un brutto scherzo con quel clamoroso canestro da lontanissimo; quella sera aspettavamo per cena Tony Zeno, grandissimo giocatore della Rivestoni che abitava nel nostro palazzo e che purtroppo era infortunato e indisponibile per quella partita.
“Tony quella sera non aveva voglia di uscire per la partita andata male e ci portò a casa un nuovo ospite, era proprio Joe Bryant, che ovviamente portò con sé questo ragazzino. Aveva appena otto anni, era magrissimo e con i capelli corti, si presentò a me e mio fratello Mino con un semplice ‘piacere, Kobe’. Eravamo più grandi di lui di qualche anno, quasi coetanei, e, mentre mia madre preparava la cena, Kobe vide il canestro montato da mio padre nel nostro giardino, non perse tempo e ci chiese se volessimo andare a giocare tutti e tre insieme. Ahimè ci distrusse, io e mio fratello ci guardavamo come se non credessimo a quello a cui stavamo assistendo, come a dire che non ci sembrava potesse essere possibile che quel ragazzino avesse solo otto anni, ci accorgemmo subito che era un talento fuori dalla norma.
“Tra l’altro il canestro era di una buona altezza, né io né mio fratello Mino siamo riusciti mai a schiacciare, invece Kobe, con una padronanza da ventenne, ci schiacciava in faccia da fermo e segnava da tutte le posizioni, era praticamente impossibile marcarlo. Si notava facilmente che era già di un altro livello, dicemmo che era il degno figlio di Joe Bryant, ma poi in carriera ha fatto molto più di lui; questo ragazzino continuò a distruggerci fino a quando mia madre ci chiamò per cena. Dopo aver mangiato mio padre Antonio convinse Tony e Joe ad uscire; Kobe, invece, rimase con noi e si stese sul divano a vedere per ore i cartoni animati. Era molto di compagnia perché sapeva parlare alla perfezione l’italiano, era nato e cresciuto nel nostro Paese. Alle 23.30 lo salutammo, quando Joe lo venne a prendere, ma ciò che mi è rimasto maggiormente nel cuore di quella serata è la semplicità, la bontà e l’educazione di quel bambino; qualità che Kobe ha dimostrato di avere per tutta la sua carriera, anche quando è diventato il numero uno al mondo: ogni volta che è tornato in Italia pretendeva di parlare la nostra lingua, a differenza di molti giocatori di oggi che, nonostante non siano stati protagonisti di una carriera all’altezza di quella di Bryant, non mostrano la sua stessa umiltà e interesse di imparare una sola parola in italiano.
“D’altronde è questa la grandezza di un personaggio simile e la differenza rispetto ad un giocatore che resta nella normalità. Anche nei momenti in cui ha raggiunto l’apice della sua straordinaria carriera ha continuato ad andare, spesso di nascosto, a Reggio Emilia, Pesaro e Pistoia per trovare gli amici con i quali ha mosso i primi passi sui campi di basket; ha dato a tutte le sue figlie nomi italiani, non ha mai dimenticato le sue origini. L’altro giorno Dino Meneghin ha raccontato che, quando si trovava a Milano, Kobe chiedeva una palestra a disposizione per allenarsi alle cinque del mattino, nonostante fosse già una star di fama mondiale e avesse ottenuto tutto quello che un giocatore possa desiderare per la sua carriera.
“Con lui se ne va una parte di tutti noi, sto intontito da quando ho avuto la notizia, sono momenti in cui il mondo si ferma a riflettere. Mi piacerebbe dire di aver avuto altri contatti con Kobe, ma quella sera è stata l’ultima volta che l’ho visto di persona, mi dispiace non avere nessuna foto di quel giorno che ricorderò a vita, peraltro era inimmaginabile chi sarebbe diventato quel bambino che avevo accanto sul mio divano. Anche quando ha vinto titoli NBA, quando di fatto è diventato Kobe Bryant, io l’ho visto sempre come una persona con cui ho avuto a che fare, anche se solo per una serata, ma non ho mai dimenticato l’immagine di quel bambino così semplice, serio e con un talento clamoroso per l’età che aveva, giocava come un adulto con un corpo da bambino”.
Altra testimonianza cittadina sul campione è quella del medico sportivo Dino Furioso, oggi responsabile sanitario della New Basket Brindisi e del Francavilla Calcio: “La stagione del 1986 è l’ultima stagione in A2 della Pallacanestro Brindisi sponsorizzata Rivestoni” – ricorda il dottor Furioso – “a tre giornate dal termine del campionato eravamo penultimi e non potevamo più perdere per ottenere la salvezza. Ma, come sappiamo, arriva a Brindisi la squadra di Rieti e con il canestro da dieci metri di Bryant inizia la lunga assenza di Brindisi dal massimo campionato italiano di basket.
“Durante l’intervallo di quella partita, negli spogliatoi, vedevo questo ragazzino che Joe portava sempre con sé, Kobe, che a un certo punto scende sul parquet del palazzetto e mi chiede se poteva tirare assieme agli altri bambini che pulivano il parquet durante la partita. Così gli diedi la palla e iniziò a segnare un canestro dopo l’altro, ripetutamente, sino alla ripresa del match; era magro e già molto alto, aveva dei movimenti che non erano da semplice bambino di otto anni, aveva qualcosa in più, di inspiegabile. Joe Bryant raccontò a Tony Zeno negli spogliatoi che Kobe non si perdeva un suo allenamento, non poteva stare senza la sua palla da basket tra le mani, voleva già migliorare con il lavoro quotidiano. Secondo me non è un caso che una leggenda simile, seppur da bambino, sia stato nel nostro palazzetto, a conferma che Brindisi è una delle città italiane più importanti nel settore della pallacanestro”.
Anche Fabio Morrone, ex giocatore brindisino di basket, ha visto Kobe Bryant da bambino, nella stagione 1986/1987, ma in un altro palasport: “Mi trovavo al Pala Botteghe di Reggio Calabria” – racconta Morrone – “questo fanciullo si unì ad altri bambini per tirare a canestro, ma lui tirava qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani, che fossero palloni di basket o palle di carta accartocciate da lui stesso. Il suo obiettivo principale era quello di mimare le movenze in campo del padre, che lui osservava per tutti i quaranta minuti di partita; si vedeva che tutto il resto non gli interessava, gli bastava un canestro tutto per lui, per fare qualche tiro in qualsiasi momento della giornata. Per questo non tutti possono capire il motivo per il quale noi cestisti siamo in lutto”.
Kobe Bryant è stato un vincente mai banale. Una vita accompagnata da una carriera che neanche il miglior attore di Hollywood avrebbe potuto interpretare. Nel 2016 l’ultima partita di Kobe contro gli Utah Jazz, con una vittoria che è stata il perfetto copione finale della sua carriera, all’altezza di una storia incredibile: realizza 60 punti e vince da solo una partita in rimonta, a 36 anni. Esce così dal campo, con l’ovazione dei suoi tifosi e compagni che lo hanno accompagnato per vent’anni di carriera, e sotto gli occhi di sua moglie Vanessa e delle sue quattro figlie (tra cui la piccola Gianna, vittima assieme a lui della tragedia della scorsa domenica; unica figlia che aveva ereditato dal padre la grande passione per il basket). Proprio la notte prima della tragedia LeBron James ha superato Kobe nella classifica all time dei marcatori NBA, e lo ha fatto onorandolo, con la scritta sulle scarpe “Mamba for life – 8/24 KB”. E l’ultimo post di Bryant è dedicato al suo degno erede, che oggi gioca con i suoi Lakers, come un ufficiale passaggio di consegne prima dell’addio più doloroso e inaspettato. Poi la terribile notizia. Le leggende non muoiono mai.