Nel 1650 Alfonso Guerrero, presidente della Regia Camera della Sommaria in Napoli, propose al re di Spagna Felipe II, di stabilire in Brindisi una base navale della Regia armata, per arginare il pericolo turco sul viceregno di Napoli, sopportando dettagliatamente la sua proposta in base alla evidente strategicità del porto di Brindisi. Quella base navale però, non fu installata finché, 260 anni dopo… agli inizi del Novecento, l’Adriatico assunse un’importanza primaria nella geo strategia del Regno d’Italia e, per poter controbilanciare la base di Cattaro della marina austro ungarica, divenne prioritaria la creazione di una base navale nel Basso Adriatico: a Brindisi.
La creazione in Brindisi di una base navale si suppose che avrebbe avuto ricadute positive sull’economia della città, e il 26 maggio 1905 il consiglio comunale approvò unanimemente una risoluzione che auspicava la realizzazione del progetto che era stato appena elaborato dal viceammiraglio Camillo Candiani per elevare quello di Brindisi a porto militare, con sede di stazione torpediniere e base di rifornimento navale.
Invero, nonostante l’entusiastico sostegno dell’onorevole brindisino Pietro Chimienti in Parlamento, quel progetto fu per qualche anno mantenuto “in studio” mentre nel porto solo giunsero a stazionare alcune modeste navi da guerra e, nel 1907, alcune torpediniere cominciarono ad essere ancorate alla banchina delle Sciabiche, inizialmente nel tratto dell’attuale via Paolo Thaon di Revel. Poi, nel 1908 qualcosa cominciò a smuoversi quando il capo di Sato maggiore della Marina, viceammiraglio Giovanni Bettolo, visitò Brindisi con la nave corazzata Dandolo e nel gennaio 1909 presentò una sua particolareggiata relazione al ministro della Marina, Carlo Mirabello, in cui confermò la necessità – e al contempo la fattibilità – di creare a Brindisi una base navale “alle cui funzioni nessun altro punto della costa adriatica si prestava”. E, nel contesto del piano previsto, indicò come sede del Comando Marina il castello di terra, all’epoca adibito a reclusorio.
Durante i precedenti cent’anni infatti, il grande castello svevo altro non era stato che “il bagno penale” di Brindisi. «Circa il 1810, regnando in Napoli Gioacchino Murat, si pensò di trasformare questo Castello in uno stabilimento penale e, all’incirca verso il 1813, passarono ad abitarlo i condannati» [Giovanni Tarantini, 1870]. Con i Borboni ritornati sul trono di Napoli la destinazione che era stata data al castello non cambiò e, come gli altri stabilimenti penali del tempo, passò alle dipendenze della Real Marina per poi, nel 1857, essere trasferito al Ministero dei lavori pubblici. Neanche l’Unità d’Italia mutò il destino del castello, quando i bagni penali furono riassegnati temporalmente al Ministero della marina e in quello di Brindisi variarono le truppe assegnate alla custodia dei prigionieri: da quelle del Real esercito, a quelle della Guardia nazionale. Poi il 1º gennaio 1867 ci fu il trapasso dal Ministero della marina a quello dell’interno. Nel 1892 i “bagni penali” furono aboliti per legge e continuarono a funzionare come “case di reclusione”. Tra febbraio e marzo 1909, dopo il trasferimento dei reclusi a Lecce, la Marina Militare prese possesso del castello e predispose i lavori di adattamento.
Durante tutti quegli ultimi anni in cui il castello funzionò come prigione, l’agibilità delle aree tutt’intorno era rimasta sostanzialmente impedita alla popolazione di Brindisi, per cui erano sorte non poche controversie tra l’amministrazione carceraria e il Comune. Il demanio infatti, oltre alla Piazza d’armi, si era riservato anche tutto il resto dell’area sottesa dalla cinta muraria nel tratto dal torrione Inferno vecchio al castello, i cui terreni agricoli erano in usufrutto dell’Orfanatrofio militare di Napoli – che in parte li faceva coltivare ai carcerati ed in parte li subaffittava – così come anche quelli circondanti il castello sul lato del mare, dove era proibito il passaggio alla popolazione e nelle cui adiacenze non si poteva neanche pescare. E la controversia si era particolarmente estesa proprio in riferimento alla fascia di terra che ai piedi del castello bordeggiava il mare.
Fin dal 1893 infatti, il sindaco Engelberto Dionisi aveva chiesto al Ministero dei lavori pubblici la costruzione di una via sul sentiero detto “strada delle canne di monsignore” che congiungeva la contrada Sciabiche con la contrada Ponte grande, sulla via provinciale per San Vito e quindi con il Casale. In quell’occasione la richiesta non fu accolta per via della relazione negativa di tale ingegnere Achille Somma della sezione Brindisi del Genio Civile, che considerò quella via “essere priva d’interesse e di non imprescindibile bisogno”. In seguito alle insistenze del Comune però, la strada fu finalmente autorizzata, contro la diffidenza della direzione del carcere che comunque impose l’edificazione di un muro di cinta dalla parte del mare, per impedire la fuga dei reclusi. Si procedette all’esproprio dei terreni e il 16 ottobre 1904 fu ultimato il progetto, la cui costruzione, a causa di ritardi amministrativi, iniziò nel 1907 a carico dell’impresa Edoardo Almagià di Bari, che la completò nel 1910, senza però costruire il famigerato muro. Nel mentre, infatti, il carcere aveva cessato di funzionare e nei primi giorni di aprile del 1909 il castello era passato alla Marina Militare che, agli inizi del 1911 e ancor prima che la strada fosse inaugurata, semplicemente dispose impedire “temporalmente” il transito al pubblico.
E si era solo agli inizi di un lungo e persistente processo di pacifica invasione e più o meno coatta appropriazione di spazi brindisini da parte della Marina Militare. Un processo destinato a estendersi ed amplificarsi con lo scoppio della Grande guerra, e di fatto persistere fino al termine della Seconda guerra mondiale per poi, e ancora a tutt’oggi a più di cent’anni dal suo inizio, lentamente e comunque solo parzialmente, stentare a rientrare.
Concluse le trattative con l’Orfanatrofio militare di Napoli, praticamente tutti i terreni adiacenti al castello “necessari per bisogni militari” passarono in proprietà alla Marina Militare la quale iniziò d’immediato ad edificare su quei terreni, recintati da un alto muro, le strutture necessarie alla base navale: la palazzina comando – che dopo l’8 settembre 1943 avrebbe alloggiato il re Vittorio Emanuele III con la sua famiglia durante i mesi di Brindisi capitale – e la biblioteca sul settore a sudest; la stazione distillatori e la centrale elettrica con il capannone da lavoro e officina riparazioni lungo la fascia est della banchina; piazzale e fabbricato per la stazione sommergibili lungo la fascia ovest della banchina. In seguito, furono costruite la strada inclinata per l’accesso veicolare dal castello alla banchina ovest e tutta una densa serie di fabbricati con varie destinazioni d’uso nella vasta area ad ovest del castello, ampliata con pezzi di terreno via via dalla Marina Militare acquistati al Comune.
È il caso ci citare a questo punto anche il destino che fu assegnato alla Piazza d’armi, anche detta Piazza castello, antistante appunto al lato sud del castello dalla Marina Militare ribattezzato “Vittoria”, pur se in questo caso l’esproprio del demanio fu inizialmente fatto in nome del Real esercito. Il Comune, nonostante tanti sforzi e varie proposte avanzate per una localizzazione alternativa della caserma che era stato deciso costruire in città, non riuscì ad ottenere l’uso della piazza e nel 1912 fu completato il progetto della caserma poi intitolata Ederle, ubicata sul lato del piazzale prospicente la via di accesso al castello. Le proteste del Comune presso il Ministero della pubblica amministrazione, allora competente in materia di tutela dei beni monumentali, solo riuscirono a far spostare l’ubicazione del fabbricato sul lato opposto del piazzale “per così conservare la visuale del castello Vittoria”.
L’intera area però, fu comunque recintata con un alto muro ostruendo del tutto la vista panoramica su castello e mare ed in seguito, sull’area non occupata dalla caserma, fu edificato l’enorme palazzo del Comando Marina: quello che chiamavamo “lu prisidiu” quando, alla fine Seconda guerra mondiale, fu per anni e anni adibito a ricovero “temporale” di tante famiglie sfollate dai bombardamenti.
Nel mentre, anche le zone occupate dalla Marina Militare nel porto interno ben presto esularono ampiamente dai limiti del castello e dello specchio d’acqua limitrofo: sulla banchina delle Sciabiche, dove già ancoravano sempre più numerose le torpediniere, si requisì il capannone che sulla banchina Lenio Flacco era stato costruito per il riparo delle merci, per destinarlo a materiali ed attrezzi necessari alle torpediniere; tutto l’ampio settore della detta “riva Posillipo”, sul lato ovest del canale Pigonati – tuttora inaccessibile – fu adibito a deposito navale; la vasta area nel fondo del seno di levante fu occupata da enormi serbatoi di nafta – tuttora lì – per solo uso militare, e per proteggerli fu sospeso l’accesso al ponte Piccolo. E nell’avamporto, oltre a Forte a mare e all’intera isola di Sant’Andrea, dove fu impiantata una batteria di cannoni, fu militarizzata anche Punta Fiume grande, quando vi si installò una batteria di cannoni analoga a quella sull’isola dirimpettaia. Infine, dopo che il porto di Brindisi fu iscritto “nella prima categoria nei riguardi della difesa militare dello Stato”, il 26 maggio 1913 i vari tratti di spiagge e banchine e specchi d’acqua già dichiarati di 1ª categoria, furono formalmente consegnati dalla Capitaneria di porto al Comando difesa marittima della piazza di Brindisi.
La necessità strategica di disporre anche nel Basso Adriatico di un servizio aeronautico di supporto alle operazioni navali – l’aviazione militare era all’epoca una divisione della Marina Militare – portò nel 1915 all’installazione nel porto di Brindisi di una stazione idrovolanti, per la quale la Marina Militare selezionò la vasta area del porto medio localizzata subito a sinistra uscendo dal canale Pigonati, sulla costa detta “Guacina”. Nel 1916, per poter contrastare l’aviazione austriaca di base a Durazzo, la stazione fu potenziata divenendo stabile: era così nato l’Idroscalo Militare di Brindisi, sorto sull’area costiera compresa tra il canale Pigonati e Fontanelle, da sempre punto di attracco di navigli imbarcazioni e battelli vari in quanto riparata dalle correnti marine. Furono necessari anche impegnativi lavori di sterro per portare al livello del mare parte dell’area della costa che in origine fu topograficamente sopraelevata e quindi furono costruite le autorimesse, ben sei hangars per gli idrovolanti da bombardamento progettati dall’ingegnere Luigi Bresciani. Adiacenti e a nord degli hangars Bresciani, si costruirono anche tre enormi hangars per dirigibili i quali però, per ragioni di sicurezza, furono presto dismessi e trasferiti al campo aereo di San Vito.
Lo scoppio della Grande guerra, inevitabilmente, non fece altro che peggiorare la già compromessa situazione, estendendo l’occupazione militare, restringendo gli spazi agibili e sospendendo del tutto ogni rimostranza della comunità cittadina nei confronti dell’autorità militare marina. Poi, venne il tempo di rimarginare le tante dolorose ferite, molte certamente prioritarie al recupero degli spazi cittadini e così, la Marina restituì ai cittadini solo quelle aree che erano state requisite in chiara funzione bellica. Il ventennio fascista da parte sua, non ritenne certo urgente sottrarre spazi e prerogative agli ambiti militari – anzi tutt’altro – contando del resto su amministrazioni comunali e cittadini perlopiù accondiscendenti. Poi un altro ed ancor più nefasto conflitto, che alla città arrecò solo pesanti lutti e grandi distruzioni, situandola quindi di fronte ad una difficilissima e sofferta ricostruzione che vide nuovamente le amministrazioni comunali impegnate a contendere gli spazi di sempre alla Marina Militare, in un continuo procedere a singhiozzi, tra sporadici – ed alle volte dubbiosi – successi e più o meno volontarie rinunce, o più o meno sofferti rinvii. Il resto è nelle cronache cittadine dei nostri giorni.