
Senza la gioia, la vita sarebbe come una pietanza senza sapore, sciapa, priva di gusto e di senso” scrive papa Francesco nella prefazione al libro “Un briciolo di gioia” scritto da don Maurizio Mirilli, sacerdote di origine mesagnese, che vive ed opera a Roma e che qualche mese fa ha dato vita alla “Casa della gioia”, un luogo ospitale per persone con disabilità. Bella e significativa iniziativa che mette insieme luoghi e persone emarginate.
Bisogna guardarsi bene, fa capire il pontefice, che a don Maurizio ha dato una cofanata di gioia, sorprendendolo con la sua prefazione non richiesta, che nel libro “stiamo parlando della gioia piena, non di quella effimera, passeggera e vana”. Ne parlavo qualche giorno fa con Fabiana che chi ha scritto il libro l’ha incontrato. Coincidenze della vita, ne parlavamo nello stesso istante in cui commemoravo, la gioia che si sogna sperando libertà, mentre si vola sui cieli d’Europa a sostenere la partecipazione delle popolazioni oppresse e poi si finisce, per incidente, a cadere su una casa, di un paesino ignaro e a somministrare la morte ad una famiglia che Gioia si chiamava di cognome.
Per quanto mi sia formato maldestramente, e qui denuncio una profonda ignoranza, la gioia, la anelo da tanti anni pure io e di quella “gioia autentica, quella che riempie il cuore dell’uomo, quando si è amati e si ama sul serio”, sarà colpa dei miei difetti ne vedo sempre meno, più che una rarità.
C’è una verità invece, in cui credo fermamente e che piccole briciole di gioia mi dà: è la libertà di pensiero, espressione e di comunicazione. Ognuno è titolare di dignità insopprimibile di dire, scrivere, comunicare, senza essere censurato, emarginato, peggio ancora violato nella sua integrità, o ancor “più peggio”, sequestrato, ucciso e cancellato.
Accade così che per una gioia censurata, interrotta, uccisa e dimenticata, al fratello Giovanni tocca, andare per le case, bussando porta a porta e raccontare, 40 anni dopo, di Peppino, il fratello amato, scambiato per terrorista anziché vittima di mafia, complice l’assurda combinazione che sulla strada su cui camminava con gioia, a 100 passi da lui, abitasse il carnefice, “Tano Seduto” capo del mandamento di Cinisi e Terrasini. Peppino moriva nello stesso momento in cui, quel 9 maggio, venne ritrovato il cadavere del presidente Aldo Moro: giornali, radio, e tv, impegnati altrove, concessero alla sua morte violenta, trenta righe in cronaca.
Aveva 30 anni, Peppino Impastato, quando veniva spento e con lui la sua gioia di dire, dare e partecipare. Io ne avevo 20, lui moriva e alla mia generazione, veniva fatto capire che la nostra voglia di dire, dare e partecipare, sarebbe stata, da allora, senza gioia e tanto arrabbiata, che dico, incazzata! Per la vita l’avremmo cercata, forse vista, ma difficilmente l’avremmo vissuta sui sorrisi nostri e di chi partecipavamo.
Oggi che i tempi sono tanto cambiati, a mio modesto pensiero, molto degradati, i valori sono tutti in crisi e della gioia, dobbiamo sentir dire, come fosse chimera e chi racconta che una volta l’ha veduta, passa pure per un tipo illuso, se non proprio fuori uso.
Appartengo a quella generazione incazzata e dura che, forse per contrappasso, finita la stagione arrivistica dei pigliainculo, ipocriti profittatori, dissennatori del senno perduto, tenta di dire a chi ci segue di riappropriasi, del diritto alla gioia, dicendo, donando, partecipando le strade, le vie, le piazze ed i luoghi della comunità.
Chiaro deve ritornare ad essere il concetto che chi dona amore, riceve amore. Dando aiuto, si ottiene aiuto. Dando sorrisi, si ottengono sorrisi.
È un processo circolare e virtuoso, è l’unico vero strumento che abbiamo per recuperare il valore sociale della gioia che comporta la partecipazione. Il diritto di dire, dare, comunicare, senza censura, ma nel rispetto di regole civili e condivise, pretende un patto nuovo, che parta dall’intimo di ognuno e si impossessi di ogni nostra azione. Solo così si può curare l’assurda sindrome dell’odiatore seriale, che non ha altro da dire, niente da dare, se non blaterare opinioni intrise nell’inchiostro della farneticazione.
Nel tempo in cui la libertà di opinione, legittima e benedetta, è confusa e si nutre di condivisione di post alle “postverità” (FB docet), si ritorni alla convinzione semplice e chiara che: “ovunque io vada, e mi capita di incontrare persone, li porterò il dono del mio rispettoso sorriso”. Ad ognuno regaliamo una buona parola, un fiore o una preghiera. Inizia così il processo di gioia circolante, che produca per le strade e fra la gente il ritorno al diritto di vivere in gentilezza.
Con gratitudine, accettiamo tutti i doni che la vita ha da offrirci. Accogliamo i doni della natura: la luce del sole, il canto degli uccelli, la pioggia primaverile o la neve di quest’inverno. Accogliamo gli altri, indipendentemente dal fatto che ci facciano un regalo materiale, soldi, un complimento o una preghiera. Le abbiamo perse tutte le battaglie di un progresso fatto di inarrestabile sviluppo economico. La decrescita che ci impone la crisi di quel sistema, per quanto infelice non ci tolga il diritto di essere condivisi.