
I giorni dell’anno sono per lo più anonimi. Un susseguirsi di date senza un significato preciso, tranne che per ciascuno di noi. Un compleanno, il primo bacio, l’inizio di un nuovo lavoro. Le teniamo bene a mente per un po’ di tempo, dopo si perdono nella miriade di cose da ricordare.
Non Capodanno. Il giorno scaramantico per eccellenza, quello durante il quale sogniamo di lasciarci alle spalle le delusioni e ci affacciamo a nuove avventure, come se il semplice spostarsi in avanti della lancetta dell’orologio in una notte speciale producesse effetti inenarrabili sulle nostre vite. Le cose che accadono nell’arco di queste fatidiche ventiquattro ore non sfuggono più, saranno sempre indissolubilmente legate allo scoccare della mezzanotte. C’è chi si contende il primato di essersi affacciato alla vita per primo, come se questo potesse in qualche modo spianare la strada e rendere una piacevole discesa quello che è sempre un cammino impervio.
E poi c’è chi sceglie di andarsene, fra la fine e il principio. Uso “scegliere” perché è difficile credere che il Signore, che riteniamo responsabile del nostro destino, ci voglia così male da farci soffrire senza motivo per la perdita di qualcuno così prezioso per noi. Più consolante ritenere che, chiamati a necessità superiori e consapevoli del buon lavoro svolto in vita, i nostri cari decidano di essere più utili altrove. Proprio in un giorno come questo, il migliore per chi decide di partire, il peggiore per chi resta e sentirà per sempre una dolorosa fitta al petto a ogni scoppio di petardo, a ogni tappo saltato, a ogni fuoco d’artificio.
Nasciamo sapendo già di avere un contratto precario, a tempo determinato. Ma l’istinto di sopravvivenza ci ha regalato la capacità di non rendercene conto, di farci vivere come se fossimo eterni, programmando sempre il domani. Inconsapevoli. Come lo era Mimma, la mattina che si è avviata inaspettatamente verso una meta nuova e sconosciuta. Mentre era affaccendata in quello che le riusciva meglio di qualsiasi altra cosa, essere madre e moglie, governare la casa, pensare agli altri, tanti, che avevano bisogno di lei. Una e trina, nel coprire quel ruolo che spesso, stupidamente, tendiamo a non apprezzare abbastanza. Siamo troppo concentrati sulla carta che si poggia per ultima sulla cima del castello, per renderci conto che è la solidità di quella più in basso a garantirne la stabilità. Si dice sempre il meglio, di chi se ne va. Tutti santi ed eroi, improvvisamente ammantati da un’aura di bontà che la morte sembra obbligarci a garantire a tutti. Ma per Mimma non c’è bisogno di abbellire nulla. Sempre positiva, abituata a rimboccarsi le maniche senza lamentarsi, anche quando ne avrebbe avuto motivo. Orgogliosa della sua famiglia, quasi stupita dall’aver cresciuto due bravi ragazzi. Desideri semplici, di quotidiana serenità. Il mare vicino a casa, una pizza con gli amici, la trasferta per la partita. Niente vacanze esotiche, nessun rimpianto. Per lei era naturale, quasi una vocazione. La sua essenza è tutta nelle parole del marito: “lei faceva tutto, noi non siamo capaci di fare nulla”. L’impotenza improvvisa di chi si rende conto che niente sarà più uguale a prima. L’ho conosciuta come collega dell’allora fidanzato. Un’amicizia di “seconda mano”. Come si dice: i parenti ci capitano, gli amici si scelgono. E lei mi ha scelto, anche se non sapevo fare una crostata né pulire una tapparella o stirare una camicia. Due mondi diversi che si sono incontrati per caso, un affetto sincero, senza spiegazioni razionali. Mi ha voluto come testimone di nozze, un onore per il quale le sono sempre stata grata. Generosa, lo sapevano anche le gatte che sceglievano il giardino della sua casa per svezzare i propri piccoli. L’intuito degli animali non sbaglia. Discreta. Indispensabile. Se ne è andata in punta di piedi, dando il minimo fastidio possibile. Non poteva essere altrimenti, per una donna così. Un attimo e la luce si è spenta. Ha atteso giusto il tempo per rendersi conto che la sua famiglia poteva farcela, senza di lei. Avrà pensato a loro, in quei giorni di limbo sospesa fra due mondi. Sopravvivere, per chi resta, non è superare il grande, infinito, macroscopico dolore della perdita. È lo stillicidio di piccole cose che, giorno per giorno, ci si accorge di non avere più. Il profumo del caffè preparato per la colazione, la tavola apparecchiata, la biancheria pulita, la voce che chiede com’è andata la giornata, le risate condivise, le preoccupazioni affrontate insieme. È il senso di impotenza nell’affrontare la giornata, perché non si sa da dove cominciare. Come i bambini, smarriti fra la folla, perché hanno lasciato all’improvviso la mano gentile alla quale erano aggrappati. La folla che c’era, ad accompagnarla verso l’ultima dimora. Volti silenziosi ma distanti, perché era zona rossa, perché se si rischiava una multa, perché il virus non tiene conto dei sentimenti degli umani e ha negato quell’abbraccio inutilmente consolatorio, che aiuta a sentirsi meno soli. Questo Capodanno il castello è crollato, cara Mimma, e sarà impossibile ricostruirlo di nuovo.
A Mimma, madre, moglie, figlia, amica.