Sessant’anni fa pose la prima pietra: «Mi piange il cuore a vedere l’ex Base Usaf abbandonata»

“Grazie per il suo lavoro ottimamente svolto. Dalla sua esperienza e dalla sua dedizione gli uomini della Air Force trarranno vantaggio per molti anni a venire”: in occasione di una visita alla Base USAF di San Vito dei Normanni, così scrisse un generale dell’aviazione statunitense a Leonardo Cavino, sanvitese, classe 1933, che di quel sito militare aveva letteralmente posato la prima pietra, qualche decennio prima, con le sue intraprendenti mani di giovane muratore di belle speranze. Il Generale arrivò da un raggruppamento tedesco, per un incontro istituzionale; Cavino, che di quella base conosceva alla perfezione uomini, funzionamento e luoghi, fece da guida.
A distanza di quasi quarant’anni dal pensionamento, per lui che è probabilmente l’unico superstite della squadra di operai che costruirono i primi edifici, quelle parole valgono più di una medaglia: “Sono importanti ancora oggi, perché significano che ho fatto bene il mio lavoro” dice con semplicità il signor Leonardo.
Nel 1959, quando, in piena guerra fredda, gli Stati Uniti ottennero dall’Italia l’autorizzazione a costruire nel brindisino un sito militare per fini prevalentemente di spionaggio, Leonardo Cavino aveva 26 anni e lavorava come muratore in un’impresa di costruzioni a circa 50 chilometri da San Vito. Una sera, rientrando dal lavoro, si accorse che alcuni operai stavano picchettando il perimetro di quella che nel giro di due anni sarebbe diventata la “San Vito dei Normanni Air Station”, una base dell’aeronautica militare statunitense. Dando soli sei giorni di preavviso, si dimise dal precedente posto di lavoro e iniziò a prestare servizio presso l’impresa di Spartaco Spàraco, che aveva ottenuto la commessa dei lavori nella base: un breve periodo di prova e poi l’assunzione definitiva, “perché avevo già molta esperienza sul campo, gli altri operai erano ragazzini, io me li mangiavo”, racconta Cavino con un sorriso di compiacimento, facilmente intuibile anche per telefono.
A San Vito fu installata un’antenna modello Wullenweber, il più avanzato sistema di radioascolto dell’epoca, di forma circolare, che per anni ha caratterizzato il panorama della zona. Per un paio d’anni attiva come distaccamento di Aviano, nel 1961 la base fu resa a tutti gli effetti operativa e indipendente: nel cuore della provincia brindisina, per più di tre decenni, circa 5.000 militari americani intercettarono, tradussero e decrittarono ogni genere di comunicazione proveniente dal blocco nemico. Negli anni successivi la base fu adibita a centro di pianificazione di diverse operazioni Nato nel bacino mediterraneo e oltre (inclusa la guerra del Golfo). Nel 1994, con la fine della contrapposizione tra blocco orientale e blocco occidentale, fu disattivata.
Negli anni 44-46, in quella zona c’era un campo di prigionia di militari italiani gestito dagli Inglesi, accanto ad un piccolo aeroporto di supporto alla missione alleata in Italia meridionale: il padre del piccolo Leonardo lavorava lì, aveva compiti prevalentemente logistici. Il primo lavoro di Cavino, quando era poco più di un bambino in calzoni corti, fu dunque a servizio dei militari inglesi. Si occupava di trasportare carburante, munizioni e materiale elettrico dalla stazione ferroviaria all’aeroporto. Era robusto e piuttosto alto ma, per farlo apparire più grande della sua età, la madre gli cucì un paio di pantaloni lunghi: “Senza quelli, non mi avrebbero mai preso. In famiglia c’era bisogno di lavorare, non potevamo perdere l’occasione. Finsi di avere sedici anni e provai a superare la selezione. Gli inglesi avevano creato un corridoio di filo spinato attraverso il quale si passava se si era ritenuti idonei. Io passai. Cominciai a imparare l’inglese spostando bidoni di benzina. La conoscenza della lingua mi fu poi utile quando, qualche anno più tardi arrivai, da giovane operaio, alla base”.
Da semplice muratore a capocantiere, da ispettore generale delle costruzioni a vero e proprio factotum con funzioni impiegatizie, sino a uomo di fiducia dei più alti in grado della base: da quel lontano 1959, la carriera di Cavino è cresciuta senza battute d’arresto. Per più di trent’anni ha lavorato meritandosi la stima degli ufficiali americani, che su di lui facevano affidamento non soltanto per le questioni strettamente professionali, ma anche per quelle personali: “Presso la mia casa di San Vito alcuni militari facevano arrivare la loro posta. Io la ritiravo e la distribuivo il giorno dopo alla base. In un primo momento arrivarono in Italia soltanto i militari. Una volta che la base fu completamente operativa, iniziarono ad arrivare le loro famiglie. Spesso sceglievano di vivere a Brindisi o nei paesi vicini, per cui li aiutavo a cercare le case più adatte alle loro esigenze. A volte trascorrevano l’inverno negli alloggi della base e poi durante l’estate soggiornavano in campagna o al mare. In quel caso, mi mettevo alla ricerca per loro delle più belle case di villeggiatura della nostra zona. Una quarantina di anni fa accompagnai l’allora comandante ad un colloquio con il sindaco di Brindisi, al quale chiedemmo l’utilizzo di un tratto di spiaggia per i militari e i loro famigliari. Quando avemmo il permesso, gli ufficiali furono felicissimi, non hanno mai smesso di ringraziarmi per essermi interessato alla questione e avere supervisionato l’organizzazione del lido, occupandomi di ombrelloni, cabine e servizi vari”, ricorda con entusiasmo Cavino.
Gli alberi imponenti che adesso circondano la base erano poco più che arbusti nei primi anni Sessanta, quando lui e la sua squadra lavorarono instancabilmente per costruire un piccolo pezzo di Sati Uniti d’America nelle campagne brindisine: “Era una città in miniatura, fornita di tutto: c’erano la scuola (i due figli maggiori di Albano Carrisi e Romina Power, Ylenia e Yari, studiavano lì), supermercati, caffetterie, la palestra con attrezzi all’epoca poco diffusi sul nostro territorio, la sala da bowling a sei corsie, il campo da golf a nove buche, il cinema, una chiesetta, una piccola clinica e persino una biblioteca, fornitissima di testi in inglese, che, quando la base smise di essere operativa, il comandante regalò all’università di Lecce. I primi lotti furono costruiti prendendo la corrente elettrica dalle nostre cabine Enel, poi gli americani si dotarono di generatori e furono totalmente autonomi”.
Quando elenca gli Stati degli USA in cui è stato inviato dai vertici della base perché si aggiornasse sulle più recenti tecniche di costruzione, nelle sue parole si avverte l’eco lontana di un piacevolissimo accento che ancora risente della quotidiana pratica della lingua inglese: “Washington D.C., Oklahoma, Texas, Ohio. Per un paio di mesi all’anno, ero in America per imparare nuove cose e insegnarle agli operai che dirigevo. Prima di ogni partenza, i miei figli mi scrivevano la lista dei desideri. Appena avevo un momento libero, andavo in giro per grandi magazzini e facevo “la spesa”: gli stivali texani, il cappello da cow-boy, il pallone da basket. Acquistavo di tutto e portavo in Italia, per la gioia della mia famiglia”.
Efficientissimo organizzatore di feste a cui, accanto ai militari statunitensi, partecipavano gli impiegati civili della base, gli uni e gli altri accompagnati dalle rispettive famiglie, Cavino rievoca con nostalgia le cene in cui si poteva scegliere di mangiare il panino con la braciola di cavallo o l’hamburger condito dalle mille salse qui ancora sconosciute, le orecchiette o il tacchino arrosto, i bocconotti o i marshmallow. Ai party privati che si tenevano nel club della base, tra la musica italiana dei piccoli complessi locali da lui ingaggiati e il country-western suonato dagli americani, nascevano amori, amicizie, rapporti di collaborazione lavorativa. “Io, mia moglie e i miei figli abbiamo imparato a celebrare tutte le più celebri ricorrenze americane. Fui nominato presidente del comitato feste, per cui ero incaricato dell’organizzazione e mi occupavo sia dei buffet che della musica. Ricordo in particolare i grandi festeggiamenti per il 4 Luglio, il giorno dell’anniversario dell’indipendenza delle colonie dalla corona inglese, o per Halloween, in cui i ragazzi si mascheravano e andavano di porta in porta a chiedere “trick or treat?”, cioè “dolcetto o scherzetto?”. La prima volta che videro mia moglie mettere in ammollo le frise prima di condirle, le signore americane le chiesero: perché lavi il pane? è sporco? Con i miei figli ridiamo spesso nel ricordare quell’episodio. Io e la mia famiglia siamo stati in rapporti di grande amicizia con molti militari e con i loro famigliari. Ancora adesso conservo ottimi rapporti con alcuni di loro, ci scriviamo e ci telefoniamo con una certa regolarità, ricordando i tempi spensierati che abbiamo vissuto insieme”, prosegue Cavino. Parlare di integrazione, in quel contesto straordinario, sarebbe riduttivo: si trattò, piuttosto, di una vera e propria contaminazione di culture, tradizioni e stili di vita tra due comunità che, proprio per effetto dei contatti stabilitisi in quegli anni, conservano ancora legami profondissimi: “I ragazzi hanno imparato nuovi sport, assaggiato nuovi cibi, ascoltato musica diversa. E questo è stato importante tanto per noi italiani quanto per gli americani”, precisa il signor Leonardo.
Testimone di una eccezionale stagione di benessere in cui il progresso del nostro territorio si è irrimediabilmente intrecciato alla presenza dei militari americani e delle loro famiglie, Leonardo Cavino è andato in pensione nel 1992 e da allora più volte è tornato in quel luogo dove la sua vita professionale è iniziata e si è conclusa. La base è ormai dismessa dal 1994: dopo la caduta del muro di Berlino la sua importanza strategica andò progressivamente scemando, per cui fu smantellata. “Sono consapevole che la base non si può riattivare, sono cambiati i tempi e forse non serve più. Però mi amareggia molto vederla ridotta così, secondo me ci sono degli spazi che dovrebbero essere recuperati. L’ultimo lotto di case non fu consegnato, perché chiusero tutto prima di completarle. Nel corso degli anni ci sono stati dei furti e degli incendi che hanno distrutto molte aree. Sarebbe bello se si riuscisse a salvare qualche zona e magari a realizzare un museo, per ricordare ai nostri giovani l’importanza della base per il nostro territorio negli anni della guerra fredda. Se ci fosse questa volontà politica, io mi metterei a disposizione come guida: la conosco passo per passo, ci ho piantato gli alberi, costruito edifici, organizzato eventi. Non merita di restare così abbandonata. Se volessero, potremmo realizzare qualcosa di bello”, conclude Leonardo Cavino.