Tonino Greco, l’ultimo palombaro brindisino

di Giovanni Membola

Il termine palombaro rievoca persone d’altri tempi, veri e propri astronauti del mare dal coraggio smisurato, esploratori fluttuanti di mondi freddi e bui, dove il pericolo è sempre incombente. Un mestiere senza confini, dal fascino romantico e intramontabile, di cui resta solo qualche memoria orale e alcune foto in bianco e nero conservate in pochi album di famiglia o in uno stralcio di giornale ingiallito.
Una inedita ricerca sui palombari civili brindisini è stata avviata da qualche tempo dall’instancabile Franco Romanelli, un lavoro paziente che ha prodotto al momento solo una ventina di nomi, probabilmente meno di quanti in realtà esercitavano l’immersione nei fondali marini sin dalla metà dell’Ottocento, cioè da quando ha cominciato a radicarsi la tradizione palombaristica nazionale. Tra i loro nomi compare anche quello di suo nonno Vincenzo Guadalupi, primo utilizzatore dell’originale elmo in rame passato poi a Domenico “Mimmi” Greco, e da lui al figlio Tonino, l’ultimo a praticare quest’arte sui fondali brindisini. L’elmo, così come lo scafandro tutt’ora custodito ed esposto nel “Museo delle Sciabiche”, venne indossato da “Vincenzi” durante il recupero di alcune parti della corazzata Benedetto Brin, affondata nel 1915 nel porto medio di Brindisi. Una volta dismesso, il prezioso oggetto metallico è stato preservato con tanto amore da Tonino Greco, l’ex palombaro – da alcuni anni in pensione – sa di possedere un reperto unico, quasi raro, un pezzo di storia “sommersa” della sua città. A soli diciannove anni ottenne il suo brevetto (n. 1067) presso il noto Centro Subacqueo della Marina Militare di Varignano (La Spezia), la principale scuola di riferimento nazionale per palombari attiva sin dal 1869, già frequentata dal padre Mimmi e da tanti altri specialisti italiani delle immersioni. Per oltre vent’anni Tonino ha lavorato, calandosi sul fondo, presso l’Arsenale della Marina di Brindisi occupandosi principalmente della messa a secco dei natanti militari, mentre le operazioni dei più anziani palombari brindisini miravano soprattutto al recupero del materiale bellico inesploso dai relitti affondati, e in alcuni casi anche alla realizzazione di opere di “edilizia subacquea” e di pesca in profondità.
“Il mestiere del palombaro richiede principalmente molta attenzione e tanto sacrificio” ci spiega Tonino Greco, una persona tanto umile quanto autenticamente disponibile e competente, a cui va il merito di saper conservare, con grandissima passione, le memorie e le tradizioni di questa professione ormai desueta. “Per la buona riuscita della missione lavorativa è essenziale l’ottimo affiatamento con la ‘guida’ – afferma – il ruolo dell’assistente in barca è fondamentale in ogni fase lavorativa del palombaro, a partire dalla sua vestizione. La vita di chi s’immerge, infatti, è totalmente affidata a questo gregario del mare”. Tra i due si comunicava regolarmente attraverso la braga, una robusta cima di sicurezza legata al palombaro: questi per chiedere qualcosa o avvisare della risalita tirava uno o più colpi secchi, oppure brevi e ripetuti “scampanellii”, una specie di codice Morse fatto di segnali convenzionali già concordati. La braga veniva inoltre utilizzata per inviare attrezzi sul fondo e nell’eventualità di un recupero in emergenza del palombaro.

Sotto lo scafandro, fatto di robusto tessuto gommato rinforzato su più punti, il palombaro indossava sempre e solo capi di lana, utili essenzialmente a proteggersi dal freddo: un maglione infilato nei lunghi mutandoni che a loro volta venivano fermati nei calzettoni, non potevano mancare il berretto e una fascia in vita, entrambi rigorosamente di colore rosso. Con l’aiuto della guida il palombaro si infilava nello scafandro, poi veniva fissato dapprima il collare metallico sul quale si avvitava il pesante elmo in rame, l’oggetto più emblematico di questo mestiere, fermato poi con dodici perni filettati. La grossa sfera metallica, spessa 7 mm, ha tre sportellini trasparenti a tenuta stagna, utili per la visione frontale e laterale; nella parte posteriore c’è l’attacco della manichetta di mandata dell’aria (detta ombelicale), completa di valvola di non ritorno, quindi sul lato destro si trova l’otturatore di uscita dell’aria in eccesso, azionata con la testa del palombaro per regolare la ventilazione e controllare l’assetto, mentre sulla parte a sinistra c’è un piccolo rubinetto necessario a scaricare la saliva o aspirare acqua e spruzzarla sul vetro anteriore in caso di appannamento. Si indossavano inoltre grossi scarponi, pesanti nove kg l’uno, con punta in ottone e suola in piombo, e la zavorra di circa venticinque chili, costituita da placche di piombo applicate sul torace e sul dorso, utili ad annullare in immersione la spinta positiva dello scafandro. Una volta riposto nel fodero il tipico coltello con lama a doppio taglio, il palombaro scendeva lentamente dalla scaletta e restava qualche minuto sotto il pelo dell’acqua per verificare la tenuta, mentre la guida azionava la pompa “a mano” di alimentazione dell’aria (poi sostituita da serbatoi e da piccoli compressori), se tutto fosse stato ok, l’aiutante avrebbe dato la classica “pacca” secca sull’elmo per autorizzare l’inizio delle operazioni.
La discesa in profondità doveva essere lenta, evitando brusche cadute, altrimenti si rischiava il cosiddetto “colpo di ventosa”, un pericoloso effetto causato dall’improvvisa e forte depressione all’interno dell’elmo che poteva determinare l’attrazione verso questa parte rigida di tutto il corpo, con possibili emorragie cerebrali, asfissia e morte improvvisa. Altrettanta attenzione andava posta durante il ritorno in superficie, in maniera da garantire la giusta decompressione ed evitare rischiose embolie. In alcuni casi si procedeva con la “risalita a pallone”, così chiamata poiché il palombaro tornava a galla lentamente con la tuta gonfia d’aria, fatta entrare sempre nell’elmo, attraverso l’apposito tubo rinforzato da una spirale d’acciaio.


A differenza del sommozzatore, il glorioso palombaro non nuotava, ma camminava lentamente nel silenzio del fondo marino, con una leggera inclinazione in avanti, “si doveva gestire il bilanciamento ponendo attenzione a non far impigliare la braga e la manichetta, era inoltre necessario mantenere il giusto orientamento e una comunicazione costante con la guida in superficie”, ricorda ancora Tonino nel suo appassionato racconto dal quale traspare nostalgia e sentimento sincero, “era essenziale conservare la concentrazione e la serenità mentale, se un palombaro non se la sentiva di immergersi, nessuno poteva obbligarlo, neppure un ammiraglio. In profondità si perdono i colori, sembra di stare in un mondo in bianco e nero, ma solo dopo i cinquanta metri diventa quasi indispensabile la luce artificiale di una lampada”.

I racconti delle vicende vissute da questi uomini coraggiosi dalla testa di rame sono sempre ricchi di fascino e suscitano grande curiosità nell’immaginario collettivo: Nicola Caruso, uno dei palombari brindisini più noti, scese oltre i sessanta metri per recuperare un siluro della Marina sganciato accidentalmente, un’azione portata a termine con successo nonostante le condizioni ambientali rese ancora più difficili dal fondale fangoso. Durante le tante missioni non sono però mancati i problemi, gli incidenti e purtroppo anche alcune tragedie, e quando Tonino Greco parla di questi tristi eventi, la sua espressione diventa malinconica.
È giusto infine ricordare gli altri autentici pionieri brindisini dello scafandro, uomini speciali dalla proverbiale audacia e tanto orgogliosi del loro mestiere: Arturo e Giovannino Guadalupi (fratelli di Vincenzo), Giovanni e Nino Lenzitti, Carlo Losito, Raffaele De Cesare, Mimmo Marzo, Adolfo Santoro, Luciano ed Eupremio Tedesco, Francesco e Salvatore Cesaria, Teodoro, Giuseppe, Giovanni e Mimmi Barretta. Naturalmente l’elenco può essere ulteriormente integrato, basta segnalare nomi, testimonianze e aneddoti in maniera da arricchire l’interessante ricerca avviata sulle esplorazioni sottomarine e poter tramandare queste storie non scritte alle generazioni future.