Un commissario ostunese protagonista di un giallo che profuma già di serie tv

C’è un “pasticciaccio brutto” a Tor Pignattara, ma il vicequestore Piersanti Spina, a comando del commissariato Roma VI, è l’uomo giusto per sbrogliare la matassa: al suo esordio nella narrativa, il 36enne sceneggiatore brindisino Dario Sardelli in “Il venditore di Rose” (Einaudi, 2021) ne racconta la storia con stile brillante e misurato, intrecciando con consumata padronanza della parola trama orizzontale e trama verticale e indovinando quella giusta commistione tra vicende professionali e retroscena privati che candida a buon diritto il personaggio di Spina a diventare molto presto una figura in grado di catturare il favore dei lettori, non soltanto quelli appassionati di gialli.
Tutto inizia nei pressi dell’acquedotto alessandrino quando, in quello che i romani chiamano semplicemente “Pratone”, viene ritrovato il cadavere martoriato a colpi di punteruolo di Rubel Roy, un venditore di rose bengalese, lo stesso dal quale Spina, la sera prima, ha acquistato le tre rose regalate alla compagna Patrizia durante la cena di San Valentino. L’omicidio diventa un caso mediatico del quale si occupa, nella sua pomeridiana striscia di televisione del dolore, la conduttrice Anna Tarantini, una vecchia conoscenza del vicequestore, l’unica donna con cui non ha avuto bisogno del naloxone per fare l’amore. Sì, perché Piersanti Spina, dirigente di polizia di origini ostunesi ma da anni a tutti gli effetti un “Torpigna”, è affetto da una rarissima patologia neurologica chiamata “insensibilità congenita al dolore” (una alterazione del sistema nervoso che non gli consente di avvertire il caldo, il freddo, la fame, gli stimoli fisiologici e dolorosi) e per “sentire” ha bisogno, ogni volta, di un piccolo aiuto chimico che assume sotto forma di inalazioni spray.
Pubblicare per la prestigiosa casa editrice Einaudi il primo libro è privilegio di pochi. Eppure, dando uno sguardo al curriculum dell’autore, non è notizia che possa sorprendere. Mesagnese soltanto all’anagrafe, vissuto a San Vito sino alla maturità classica conseguita al Calamo di Ostuni, a 19 anni Sardelli è a Milano per frequentare – il più giovane del suo corso – il Centro Sperimentale di Cinematografia. Poi una sfilza di successi come sceneggiatore, lettore e story editor per fiction e cinema (Un posto al sole, Che Dio ci aiuti, molte commedie per Fulvio Lucisano e altre serie di prossima uscita per Rai e Mediaset) a cui affianca, ed è forse quello che lo appaga di più, la collaborazione con Neri Marcorè, Sabina Guzzanti e Serena Dandini come autore per la tv satirica.
Con queste premesse, non sorprende che l’Einaudi ne abbia riconosciuto il talento: “È una soddisfazione immensa poter pubblicare con la casa editrice che ha formato sin dall’adolescenza il mio gusto letterario. Era da diverso tempo che avevo in mente di scrivere un giallo, perché il giallo è da sempre una trovata furba che i narratori utilizzano per catturare i lettori, è una sfida che si crea tra chi racconta e chi legge. Credo che questo genere sia sempre una scusa per raccontare una storia che poi ha tutt’altro fine. Quando ho proposto loro la prima stesura, in Einaudi si sono innamorati del protagonista e della location, cioè di Tor Pignattara e di quest’uomo che non sente il dolore. Hanno scommesso su Piersanti e sulla Roma nella quale vive e lavora, a quel punto ci siamo dati da fare per migliorare quanto più possibile il prodotto ed è venuta fuori questa prima avventura del vicequestore Spina. Adesso il piano mio e della casa editrice è quello di andare avanti, anche se stiamo ancora cercando di capire tempi e modalità”, racconta Dario Sardelli senza nascondere la soddisfazione. Poi prosegue, spiegando le ragioni profonde che lo hanno condotto a scrivere di Piersanti Spina: “Mia moglie è laureata in Psicologia. Nel periodo in cui scrivevo, stava studiando questa patologia. Non appena me ne ha parlato, mi sono chiesto banalmente: è una cosa buona o no? se io potessi scegliere di non sentire il dolore, cosa deciderei? come vive chi non sente nulla? Intorno a queste domande ho cercato di costruire una storia che fosse credibile. Alla fine del libro, rileggendomi, mi sono reso conto di avere raccontato quasi la storia di un supereroe. Un supereroe il cui superpotere è, però, un “superproblema”: la sua insensibilità al dolore lo rende lucido e impermeabile alle sollecitazioni esterne, caratteristiche che nel suo lavoro lo avvantaggiano. Ma, contemporaneamente, questa impermeabilità lo allontana dagli altri, perché, non conoscendola in prima persona, è incapace di condividere la sofferenza. E poi, elemento non secondario, mentre scrivevo mi sono accorto che era interessante calare questo personaggio insensibile al dolore in un contesto sociale come Tor Pignattara, in cui tutte le sensazioni sono così spinte ed esasperate”.
Quella di Sardelli (e Spina) non è la Roma feroce e desolata di Pasolini, né quella fascinosa della dolce vita felliniana, ancora meno quella decadente e disincantata de La grande Bellezza. Al contrario, Sardelli, fotografandone il folclore senza i toni macchiettistici di certa letteratura contemporanea, racconta la città in cui un musulmano può fare irruzione in un bar urlando «Allāhu akbar» senza che nessuno si allarmi, così come la città in cui nessuno si scandalizza se quello che di giorno è il migliore dei medici legali sulla piazza, di notte diventa uno stand-up comedian. Una capitale popolare ma non pop, multietnica senza che il mix di nazionalità che la abitano le faccia perdere una stilla della sua schietta autenticità autoctona, abitata da personaggi comici, grotteschi, crudeli e ruffiani, eppure sempre genuini e mai inutilmente caricaturali.
Abituato com’è a comunicare per immagini in virtù del suo lavoro come sceneggiatore televisivo, Sardelli è in grado di affrescare Roma in poche righe senza che della magia e dell’incoerenza della città resti fuori nulla: “Dall’eleganza esoterica dei palazzi di Coppedè alla maleducazione architettonica degli edifici di Cinecittà, passando per anonimi viali alberati che collegavano il grigio al nulla, per poi piombare nella maestosità romantica e terribile di certi scorci dell’Appia, Roma sbatté in faccia a Piersanti tutte le sue contraddizioni, l’orrore e l’incanto patetico che si portava dentro, come in una seduta di psicanalisi urbana”, si legge ne “Il venditore di rose”. È la scrittura di prossimità, onesta e senza sconti, di chi la città la conosce perché la vive pienamente ed è bravo a rivelarla al lettore senza insistere sui luoghi comuni (ambientare una storia nella capitale senza che nessun personaggio dica “sti cazzi” è, in effetti, prova che non hanno superato scrittori ben più esperti e famosi): “Ci sono narratori attratti da ciò che hanno soltanto lambito, per i quali la scrittura è un mezzo per esplorare ciò che non conoscono. Io non riuscirei a scrivere senza sentirmi profondamente radicato al territorio che ho scelto di raccontare. Vivo a Tor Pignattara da quando mi sono trasferito a Roma, amo tutto di questo quartiere e non saprei immaginarmi in nessun’altra zona. Questo è ancora un posto in cui accadono cose, in cui la verità è ancora protagonista della vita delle persone. La vecchia generazione di borgatari veraci convive, più o meno serenamente, con gli immigrati e alle botteghe di una volta si affiancano i negozi arabi, bengalesi, cinesi. Questa è sempre stata una zona di frontiera, anche i meridionali che negli anni Cinquanta iniziarono ad arrivare a Roma si fermavano qui. Tor Pignattara rappresenta le colonne d’Ercole della capitale, il west dell’Italia. E nel west, ce lo insegnano i film americani, da che mondo è mondo succedono cose”, sorride Sardelli.
In questa Roma ai confini col centro del mondo, Piersanti Spina è personaggio che seduce perché si staglia asciutto e moderato laddove tutto è sovraespresso. È il poliziotto con il quale un sospettato di omicidio, ignorando la sua insensibilità al dolore, si congratula per lo stoicismo con cui, dopo un corpo a corpo, reagisce ai ripetuti colpi al volto (“Aoh, dotto’, le posso fa’ i complimenti? Menare ho sempre menato, ma nun ho mai visto nessuno pijalle cosí… Se lo lasci di’ da uno che ne capisce: ce vole classe pure a prenderle, le botte”).
È l’uomo che porta al polso un orologio che a cadenza regolare gli segnala quando bere, mangiare, andare in bagno e fare stretching. Uno che della carezza di una donna sul viso non può avvertire la leggerezza e la pressione, uno che poggia le mani su un tavolo e non sa se quel tavolo è liscio o ruvido, uno che inizia a fumare (ma solo sigarette ayurvediche!) a quarant’anni compiuti, per scrollarsi di dosso l’aria di perfezione e imperturbabilità che da sempre lo avvolge. È l’uomo affetto dalla genetica impossibilità di avvertire il dolore che, in una sorta di indagine interiore nella quale viene attraversato dal timore di non riuscire a sentire abbastanza l’altro, il diverso il lontano, ha bisogno di chiedere alla sua fidanzata anestesista cosa il giovane venditore di rose abbia provato la notte di San Valentino mentre qualcuno gli perforava il corpo con un punteruolo. È, questa, la domanda che connota profondamente Piersanti Spina come eroe tragico di una storia di sofferenza soltanto sfiorata. Ma è anche ciò che (per espressa ammissione dell’autore) avvicina Dario Sardelli al protagonista del suo romanzo e a quel suo modo interrogativo di intendere la vita: “Tutti e due ci chiediamo la stessa cosa: cosa provano gli altri? faccio abbastanza per comprenderlo? posso alleviare le loro sofferenze? Sono dubbi, non so se filosofici o psicologici, che mi accompagnano da sempre. Spina, a causa della sua patologia, non riesce a comprenderlo sino in fondo, ma se non escludo che nelle prossime storie Piersanti si misuri più da vicino con il dolore altrui. Io non ho ancora trovato la risposta: ecco perché sono certo che sarà proprio intorno a questi dubbi che si svilupperanno le prossime storie del mio commissario”.