Valentina: curiosita’ e talento, tra racconto e informazione

La realtà è una passione. Come tante altre; come tutte quelle che ardono nella sostanza emotiva, prima che fisica, di ogni essere umano. E’ la passione che svela chi siamo, “in realtà”. Da questo nasce il lavoro sull’immagine che è stata la vita, seppur breve, di Valentina Pedicini, brindisina, documentarista e donna di cinema, morta a soli 42 anni a Roma, il 20 novembre scorso. Del resto, cos’è un documentario se non il racconto – perché “narrazione” è decisamente usurato e insopportabile -, se non riportare la cronaca di una circostanza, di vicende umane anche lontanissime da noi, nel tempo o nello spazio?
In questi ultimi giorni, dal cordoglio che arriva da ogni anfratto del mondo artistico nazionale per la scomparsa di Valentina, emerge la dolorosa convinzione di un qualcosa che ci è stato inevitabilmente negato; essendo stato negato a lei: un percorso originale, uno sguardo nuovo, un gusto cinematografico che si discosta dai tòpoi del mercato audiovisivo italiano, che all’importante tradizione documentaristica italiana, avrebbe potuto dare ancora tantissimo. Si avverte anche dalle prime parole con cui il docmaker Gianfranco Rosi ha accolto la notizia della propria candidatura, con “Notturno”, alla shortlist per il miglior film straniero agli Oscar 2021: “Sono molto felice, l’ho saputo un momento e la prima cosa che voglio dire è che lo dedico a Valentina Pedicini, con un lungo abbraccio”.
Era nata a Brindisi il 6 aprile 1978, diplomatasi in Regia presso la Zelig International School of Documentary, nella sua breve parabola artistica -che l’ha vista imporsi nelle principali competizioni cinematografiche europee -, la cineasta ha iniziato subito a muoversi sul versante della caratterizzazione della realtà/territorio, col suo corto d’esordio, 50 minuti coi quali ha ottenuto il diploma a pieni voti nel 2010, “My Marlboro city”. Per la sua prima regia, Valentina Pedicini scelse di scoprire come fosse cambiata la sua città natale, fino ai primi anni Duemila considerata la capitale delle sigarette di contrabbando, con gli avamposti di smercio a quasi ogni angolo della città – colori locali impressi ancora oggi nella memoria collettiva -, non mostrandone le atmosfere se non in alcune immagini d’epoca in apertura: uomini in tute acetate d’ordinanza che, lesti, caricano sulle spalle casse a marchio Marlboro, appena prelevate dai motoscafi; montagne di “bionde” stipate di corsa in bagagliai di vecchie Fiat, che sfrecciano via dalla costa, avvolte in nuvole di sabbia; il mare: le acque del porto protagoniste della benedizione ecumenica nel giorno dell’Epifania ortodossa, come da tradizione, col lancio del crocefisso. Mare profanato dall’iniquità del commercio illegale di tabacchi. E tuttavia, dopo i primi fotogrammi, non c’è spazio nello short movie per il ristagno di certi retaggi, ma si protende subito verso un futuro percepito davvero come possibile, attraverso la vita di quattro personaggi, protagonisti di altrettante storie generazionali; storie minime in bilico tra speranze, amori, agguati dal passato.
Dall’esordio più che convincente, ogni pretesto della realtà è sfruttato come occasione per uno script che si discosta dagli argomenti più “frequentati” dai cineasti di oggi per disporre il copione secondo altre logiche: affettive, nostalgiche, di rappresentazione di mondi e situazioni altrimenti sconosciuti ai più, reinventando le strade della cronaca, attraverso chiaroscuri, uso sapiente del bianco e nero, ricerca; e sottrazione: di sovrastrutture e suggerimenti per decodificare; con sobrietà e rispetto.
In quest’ottica, nel 2013 Pedicini realizza in suo secondo cortometraggio, “Dal profondo”, col quale vince il Premio Solinas, il Festival di Roma, i Nastri D’Argento, entrando in cinquina ai David di Donatello. Si tratta di una storia di memorie dal sottosuolo, dell’unica donna italiana che ancora lavora, insieme ad altri 150 uomini, nella miniera di carbone nel Sulcis, in Sardegna. Una discesa nelle viscere della terra per un lavoro alienante, l’estrazione di un materiale che nessuno comprerà, in un mondo che invece spinge per l’energia alternativa: l’insensatezza dell’essere, e della miopia.
La voglia di prescindere – una volta tanto – dall’importanza dei premi, della visibilità a tutti i costi e dalla spropositata rilevanza attribuita ai circuiti festivalieri (che pure l’hanno gratificata) è davvero tanta guardando alle scelte narrative della regista brindisina, perché è lampante che operasse per generare nuovo valore, superando i soliti contesti logora(n)ti delle sceneggiature portate sul grande e piccolo schermo.
Dopo il cortometraggio “Era ieri”, del 2016, ancora girato a Brindisi, e selezionato alla Settimana Internazionale della Critica al Festival di Venezia, Valentina affronta un argomento complesso e silente – chi si prenderebbe, ora, l’onere di parlare di eugenetica? -, facendo luce su un fatto realmente verificatori in Svizzera, tra gli anni Venti e Ottanta del Novecento: del 2017 è il suo primo lungometraggio, “Dove Cadono le ombre”, interpretato da Federica Rosellini, che ottiene il premio NuovoImaie Talent Award, prodotto da Fandango e RaiCinema, presentato nello stesso anno alle Giornate degli Autori al Festival del cinema, a Venezia. La storia vera delle vittime di un’associazione elvetica, che sottrasse 2000 bambini alle famiglie di etnia jenisch, come rom e sinti, al fine di condurre esperienti scientifici genetici mirati all’eliminazione del nomadismo, anche attraverso la sterilizzazione; in questo frangente, la stessa Pedicini si rese conto di avere per le mani un fatto storico la cui portata sfuggiva alla costrizione documentaristica, che era la sua dimensione, per attingere alla drammatizzazione vera e propria. Anche questo un bel tentativo per decondizionare il gusto del pubblico, sempre più accomodato su canovacci abusati all’inverosimile, dove le emozioni più annacquate sono e meglio è.
Ma poi, chi l’ha detto che un autore debba necessariamente leggere il proprio tempo per dire che funzioni? Chi l’ha stabilità l’efficacia di un’azione filmica? Altre situazioni, altri lunari e si rilancia al pubblico qualcosa di veramente originale pur se a due passi da casa e parallela a una realtà omologata. Nel 2019 esce l’ultimo film di Valentina Pedicini, “Faith”, candidato ai Nastri d’Argento Doc, aveva ricevuto il premio al Docs Barcelona, il prestigioso Festival di documentari spagnolo, esperimento finale di fotografia e sonorità,
La regista ha risalito le colline marchigiane per incontrare una comunità di monaci cristiani, italiani, che da vent’anni si prepara duramente alla resa dei conti col Male, attraverso un incessante allenamento nello spirito e nel corpo, tra preghiere notturne e discipline orientali. Sono i “Guerrieri della Luce”, un gruppo di 22 persone che ha scelto di vivere secondo rigide regole monastiche, dove ogni azione rimanda a un simbolismo preciso per una sempre maggiore tenuta spirituale, nell’attesa del nuovo mondo, aderente alla loro speranza di rigenerazione sulle basi della propria fede.
Sperimentazione, passione per la realtà, tra racconto e informazione, che poi è la cifra stilistica di chi sceglie di esprimersi attraverso la forma documentario: con la scomparsa di Valentina Pedicini si avverte, chiara, la doppia valenza del tempo: troppo presto all’anagrafe, certo, ma con la certezza di non aver sprecato un solo minuto dell’esistenza.