di Marina Poci per il7 Magazine
Fotografo, scrittore di libri e di articoli per riviste specializzate, insegnante di inglese online in una scuola vietnamita, nonché mental coach e, soprattutto, grande viaggiatore: 46 Paesi visitati in 5 continenti è il succoso bottino di viaggio del 43enne latianese Tommaso Gioia. Figlio di questo bottino è l’interessante “Erasmo da Otranto”, qualcosa a metà tra il romanzo di formazione e il racconto on the road in salsa salentina, in cui la storia personale del protagonista, con le sue amicizie sgangherate, il lavoro insoddisfacente e l’amore per la pittrice Elena, sembra in realtà semplicemente un espediente narrativo per giustificare il racconto appassionato dei suoi viaggi in giro per il mondo, la cui dettagliata cronaca è contenuta nelle mail che Erasmo scrive a cadenza regolare all’amico Gianni.
In procinto di iniziare il suo viaggio tra i lettori facendo tappa al Salone del Libro di Torino, “Erasmo da Otranto” è la storia di una generazione che trova se stessa uscendo dalla propria zona di conforto per confrontarsi con il mondo, senza mai recidere del tutto il legame autentico con la terra madre e gli elementi, anche geografici, che la connotano: l’architettura barocca della Lecce in cui il giovane Erasmo, venditore di ceramiche e arredi per bagno sceglie di vivere, il mare cristallino di Otranto, gli ulivi delle campagne salentine, dei quali il protagonista dice “per me non sono stati mai solo degli alberi. Sono i sogni che facevo quando da bambino mi arrampicavo sopra e vedevo Paesi e mondi immaginari. Sono la nostra storia, che lentamente stiamo lasciando scomparire”.
Esattamente due anni fa, il 5 ottobre del 2019 Tommaso Gioia è partito per il giro del mondo, cominciando dall’India, con l’idea di stare fuori per circa sette o otto mesi, senza pianificare dettagliatamente ogni tappa, ma lasciando molto all’ispirazione del momento. Il suo viaggio si è sviluppato sulla scia di una casualità nella quale, a fine febbraio del 2020, si è insinuata la pandemia da Covid-19, costringendolo repentinamente ad un rientro forzato in Italia mentre si trovava in Messico con l’intenzione di visitare le piramidi mesoamericane e il museo di Frida Kahlo. Da quel momento in poi, si è dedicato alla stesura del libro, che rappresenta una apprezzabile commistione tra la dimensione pubblica del Gioia fotografo e viaggiatore e quella privata di un uomo che, dando corpo alla sua fisionomia di sognatore, si è lentamente appropriato della sua pelle.
Nasce prima la passione per la fotografia o quella per i viaggi?
“Sicuramente quella per i viaggi. Ho viaggiato quasi sempre da solo e ho iniziato molto presto, dai classici itinerari che si scelgono da ragazzi, le capitali europee, tra l’altro quasi sempre in periodo estivo e per non più di due settimane. Poi negli ultimi anni ho cominciato ad uscire dal nostro continente e ad allungare i tempi, trattenendomi fuori per qualche mese, e devo dire che viaggiare è l’esperienza che più nella vita mi ha formato. La passione per la fotografia è molto vecchia, anche se è diventata un lavoro soltanto recentemente, quando è subentrata una maggiore consapevolezza di me stesso e delle modalità con cui volevo gestire la mia vita”.
A cosa l’ha portata questa consapevolezza?
“Ad aprire il cassetto dei miei sogni per cominciare a realizzarli: scrivere un libro, fare il giro del mondo, diventare un fotografo professionista. Ce ne sono ancora altri, ma per scaramanzia preferisco non raccontarli”.
Il primo viaggio fuori dai confini europei qual è stato?
“È stato in Sud America: sono rimasto per quasi due mesi in Brasile, Colombia e Perù. Ho visitato il sito archeologico inca di Machu Picchu, che mi ha incantato e che resta, malgrado tutti i posti che ho visitato, l’attrazione turistica più bella del mondo. Il paesaggio più bello invece l’ho visto tra il nord del Cile e la Bolivia, a circa cinquemila metri di altezza, dove la natura è meravigliosamente incontaminata”.
Quando è fuori dalla Puglia cosa si porta dietro della Puglia?
“A livello caratteriale, sicuramente porto in giro per il mondo il mio essere accogliente e molto aperto alle relazioni sociali, un aspetto che avvicina molto i pugliesi ai sudamericani. A livello culturale, mi porto dietro l’amore e il rispetto per la terra, che non tutti i popoli coltivano come noi”.
Nel romanzo, Erasmo si definisce “un’anomalia del sistema”: anche Tommaso si sente, o si è sentito, così?
“Credo che in alcuni particolari periodi della vita tutti noi possiamo sentirci non adatti alla società in cui viviamo. Anche a me è capitato di vivere una forte crisi qualche anno fa. Però questi momenti di inadeguatezza sono occasioni di crescita, perché è proprio allora che siamo disposti a porci delle domande che normalmente non ci porremmo. Ecco, se riusciamo a trovare a quelle domande delle risposte soddisfacenti, possiamo far fare un salto di qualità alla nostra vita”.
“Si riesce a essere liberi solo quando non si cerca più di liberarsi”, scrive Erasmo. Lei si considera un uomo libero? E, se sì, da cosa si è liberato?
“La libertà a cui mi riferisco non ha a che vedere con la mia dimensione di viaggiatore, è più un concetto mentale. Ognuno di noi ha un background culturale, linguistico, religioso, di comportamento che, se da un lato ci arricchisce e ci definisce, dall’altro può rischiare di limitarci. Questo succede quando noi viviamo la nostra vita soltanto in accordo e attraverso il filtro di quella cultura. Lo sforzo che ho fatto, studiando filosofia e psicologia da autodidatta, è stato quello di spogliarmi di quei filtri. Quindi sì, mi sento libero perché cerco di ragionare fuori dai condizionamenti culturali”.
I genitori di Erasmo hanno avuto una crisi mistica all’annuncio dell’abbandono del lavoro per girare il mondo. Posso chiederle come hanno reagito i suoi al suo stile di vita irregolare?
“Con sorpresa e con perplessità all’inizio, ma poi con grande apertura. Hanno compreso che il viaggio è la mia dimensione di vita e rispettano questo mio percorso”.
Da quanto tempo non viaggia?
“Parecchio. In questo momento la cosa più sicura sarebbe restare in Europa, ma non ne ho molta voglia. Appena sarà possibile ricominciare a viaggiare per lunghi periodi, senza la paura di restare bloccati in qualche angolo sperduto del mondo, tornerò in Vietnam, un Paese che amo moltissimo, che considero una seconda casa e dove ho conosciuto persone meravigliose. Poi mi piacerebbe esplorare il Giappone e la Cina e approfondire l’Africa subsahariana, Kenya e Tanzania soprattutto”.
Che tipo di foto le piace scattare?
“All’inizio ero molto focalizzato sulle foto etniche: la donna tatuata nel nord della Birmania, il bambino vietnamita a piedi nudi, l’uomo che trascina il carretto di spezie in India. Poi, durante il mio percorso di ricerca artistica, ho un po’ lasciato perdere quel discorso, per dedicarmi ai reportage sociali. Ho in testa un paio di tematiche molto forti che vorrei sviluppare e spero di farlo nel 2022, quando saremo un po’ più tranquilli. Non mi interessa più fare una bella foto, quello che voglio è che la foto racconti una storia e che sensibilizzi chi la guarda rispetto ad un problema che voglio sollevare”.
Un personaggio famoso che vorrebbe assolutamente fotografare e perché.
“Se penso ad un personaggio del passato, mi viene in mente il filosofo indiano Jiddu Krishnamurti, del quale ho letto tanto, perché aveva un viso particolare e perché amo il messaggio di pace e apertura mentale che trasmette. Per quanto riguarda il presente, non mi interessano i famosi. Vorrei fotografare un bambino che si trova in un luogo di guerra, o di povertà, o di mancanza di cultura. Mi piacerebbe catturare gli occhi di quel bambino che non sa cosa gli accadrà domani e cosa sarà della sua vita, per mostrarli alla gente che è lontana da quei luoghi, in modo da sensibilizzarla rispetto a certi temi”.