Alberto e Tony, finanzieri uccisi dai contrabbandieri: 25 anni fa il loro sacrificio cambiò la storia di Brindisi

Di Marina Poci per il numero 391 de Il7 Magazine
“Una lattina di metallo accartocciata, come quelle delle bibite… solo che dentro c’erano persone”: quando il dottor Angelo Loconte, al tempo dirigente della Squadra Mobile della Questura di Brindisi, arrivò al chilometro 46 della statale 379, all’altezza del santuario di Jaddico, la sera del 23 febbraio 2000, fu questa l’impressione che ebbe osservando la Fiat Punto tra le cui lamiere contorte c’erano quattro giovani finanzieri gravemente feriti. Due di loro, il vicebrigadiere Alberto De Falco, 33 anni, originario di Cosenza, e il finanziere scelto Antonio (Tony) Sottile, 29 anni, di Alife, in provincia di Caserta, non sarebbero sopravvissuti alle gravissime lesioni interne provocate dall’impatto con la Range Rover rostrata e blindata a bordo della quale viaggiavano, con un carico di sigarette Merit appena giunte dall’altra sponda dell’Adriatico, i contrabbandieri Giuseppe Contestabile e Adolfo Bungaro, che dopo lo scontro fuggirono a piedi nelle campagne dimenticando nell’auto i cellulari che servirono a identificarli (furono poi condannati a dieci anni di reclusione per omicidio con colpa cosciente). Gli altri due finanzieri della pattuglia denominata “Clio 2”, il vicebrigadiere Edoardo Roscica e l’appuntato Sandro Marras, si salvarono e portano ancora, dentro e fuori, le conseguenze dell’incidente.
In provincia di Brindisi quelli erano i tempi ignobili di “Marlboro City”, di madri e padri che alla domanda “di cosa si occupa suo figlio” rispondevano candidamente “lavora alle sigarette” senza ritenerlo un disonore, di un coprifuoco che appena calava il buio la gente per bene si autoimponeva per evitare di imbattersi nelle auto che sfrecciavano per le strade cittadine a luci spente, di un’intera generazione di giovani a cui, per un certo periodo, fu preclusa una visione della vita alternativa a quella offerta dal contrabbando gestito dalla Sacra Corona Unita, che importava tabacchi lavorati esteri da Albania e Montenegro e li smerciava in tutta l’Italia meridionale.
Cinque giorni dopo la tragica morte di De Falco e Sottile, in provincia arrivarono uomini, circa duemila da tutta Italia, e mezzi, ma – soprattutto – arrivò la volontà politica di riprendere il controllo del territorio e privare la criminalità organizzata locale della maggiore fonte di “reddito” del momento: la chiamarono “Operazione Primavera”, perché nacque sul finire dell’inverno e destò gli animi assopiti dei brindisini restituendo la prospettiva del risveglio a chi non osava immaginarla.
Angelo Loconte (nato a Bari da padre fasanese), ora in quiescenza, era arrivato alla Questura messapica, proveniente da Imperia, un anno e qualche mese prima dell’episodio che diede avvio a una delle più importanti azioni repressive di polizia che questo Paese ricordi, paragonabile soltanto, per espresso richiamo proprio di Loconte, alle operazioni antiterrorismo di fine anni Settanta.
Venticinque anni dopo l’omicidio di De Falco e Sottile, il suo ricordo di quella sera e dei due mesi successivi è doloroso ma estremamente lucido; accurato ma asciutto; fiero, eppure modesto.
“Avevo l’alloggio in Questura, per poter intervenire in qualunque momento, se ce ne fosse stata la necessità”, racconta. “Arrivò una telefonata che inizialmente riferiva di un incidente stradale sulla 379. Mi parse strano che la sala operativa allertasse direttamente me e non la Polizia Stradale. Il dirigente della Mobile viene notiziato di un sinistro quando si ha il sospetto che sia in qualche modo attinente alla criminalità. Capii immediatamente e mi misi in macchina per raggiungere il luogo dell’impatto. Lì mi trovai davanti a una scena cruenta. Arrivai contemporaneamente alle autoambulanze e mi resi immediatamente conto che il vicebrigadiere De Falco era morto sul colpo. Noi tutti sperammo che la sua fosse l’unica vita che avremmo pianto, invece circa mezz’ora dopo, mentre eravamo già intenti a studiare la scena e dare avvio alle indagini, ci arrivò la notizia che anche Antonio Sottile non era sopravvissuto. Mi bastò un’occhiata all’altro mezzo coinvolto (danneggiato, se pure non come la Punto) per capire a quale fenomeno criminale ricondurre l’incidente. Eravamo abituati agli speronamenti delle vetture delle forze dell’ordine da parte dei mezzi dei contrabbandieri, rappresentavano la quotidiana prassi con cui i nostri uomini si misuravano. Ma la scena di quella sera ci allarmò in maniera inconsueta e ci mise chiaramente davanti al fatto che eravamo arrivati al punto di non ritorno”, aggiunge Loconte.
Una consapevolezza potente che, nei mesi successivi, quando l’impegno delle forze dell’ordine fu massimo, diventò il carburante in grado di far dimenticare turni, orari, impegni personali e famigliari, per abbandonarsi completamente al bisogno di fare primavera laddove l’inverno criminale, per decenni, aveva deviato la sorte di quei luoghi.
Lei proveniva da Imperia: quando arrivò a Brindisi cosa trovò?
“Una situazione di illegalità talmente diffusa da non essere più nemmeno percepita come tale. La popolazione aveva l’idea che tutto potesse essere tollerato e tollerabile. Gli unici a porre un freno al fenomeno (che invece di dare segnali di tregua peggiorava sempre più) erano poliziotti, carabinieri e finanzieri. Tanto è vero che erano loro le principali vittime della reazione delle organizzazioni criminali. I contrabbandieri utilizzavano mezzi quasi militari, potenziati sia sotto il profilo elettro-meccanico sia sotto quello della carrozzeria. Erano suv attrezzati con rostri e blindature, in grado non soltanto di preservare gli occupanti, ma anche di “offendere” le piccole utilitarie sulle quali viaggiavano gli appartenenti alle forze dell’ordine”.
Come conviveva il contrabbando con la SCU in quegli anni? C’erano interessi confliggenti o ad un certo punto si trovò una condivisione di intenti?
“Il contrabbando iniziò come un fenomeno di criminalità comune, ma questa connotazione non durò tantissimo. La criminalità organizzata, rendendosi conto delle enormi possibilità remunerative che offriva, aveva interesse a mettere il naso in quegli affari. Iniziò taglieggiando i piccoli contrabbandieri, che appartenevano alla criminalità spicciola, poi cominciò ad assoldarli tra le proprie fila, assorbendoli e rendendoli partecipi dell’organizzazione. Quando io sono arrivato sul territorio, non era già più possibile distinguere tra i due fenomeni”.
Cosa cambiò dopo l’omicidio di De Falco e Sottile?
“Quando comunicammo al Ministero dell’Interno i dettagli dell’indagine, vi fu una presa di coscienza del Governo, e della politica in generale, tale da determinare quella unità di intenti che fu risolutiva. Si comprese che era una guerra numericamente impari, per questo fu presa la decisione di mandare rinforzi per un periodo di tempo contingentato, che durò poco più di due mesi. Quei duemila uomini non organici al territorio offrirono a noi, che conoscevamo bene i luoghi, la possibilità di controllare la provincia in maniera più estesa e meglio organizzata. I fenomeni criminali sono talmente diversificati sull’intero Paese, che per vincerli occorre intervenire al momento giusto: ecco, con l’Operazione Primavera, fu colto esattamente quel momento”.
Fu un’operazione senza precedenti.
“È rimasta senza precedenti. Lo Stato, mandandoci così tanti colleghi, mostrò di onorare lo sforzo di tutti coloro che avevano perso la vita, non soltanto di Alberto De Falco e Antonio Sottile. Non fu sradicata la criminalità, lo sappiamo, ma il contrabbando subì un colpo dal quale non si riprese mai più”.
Il territorio fu presidiato in modo capillare e penetrante: quale fu la reazione della gente? Ne percepivate più il sostegno o l’ostilità?
“Le attività di controllo, perlustrazione, perquisizione personale e domiciliare inizialmente non furono molto gradite alla popolazione. Cosa che non è affatto inusuale: la militarizzazione del territorio fa spesso percepire alla gente una riduzione del proprio stato di libertà. Ma il risultato ottenuto portò le persone dalla nostra parte, anche coloro che erano più scettici. Anche perché, nel momento in cui il fenomeno fu fortemente ridimensionato, la gente realizzò che la vera libertà era poter uscire da casa senza il rischio di incontrare le carovane a fari spenti che procedevano letteralmente senza guardare in faccia nessuno, spesso nemmeno le autoambulanze”.
Che l’atteggiamento stesse mutando lo avvertiste?
“Assolutamente sì. In pochi giorni passammo dalle telefonate di lamentela a quelle di ringraziamento. E anche gli uomini di pattuglia, che in un primo momento venivano trattati con diffidenza, avvertirono la stima e la speranza di rinascita della popolazione”.
Lei ha conosciuto le famiglie di De Falco e Sottile e i sopravvissuti del 23 febbraio: che impressione ne ha avuto?
“I due finanzieri morti, così come coloro che facevano parte di quella pattuglia e si sono salvati, erano uomini di grande professionalità e grande coraggio. I loro famigliari e colleghi sono persone degne della più grande compassione. Persone che hanno vissuto il dolore della perdita con la consapevolezza di avere vissuto accanto a due giovani di valore, che hanno perso la vita nell’adempimento del servizio che avevano scelto e onorando sino alla fine la divisa che hanno amato”.
Ci fu un momento in cui realizzò distintamente “abbiamo vinto”?
“Sì, ci fu: dopo circa quattro o cinque settimane dalla morte di De Falco e Sottile, iniziammo ad annoverare le prime “delazioni”, quelle che nel mondo criminale chiamano “infamità”. Cominciavamo a ricevere segnalazioni, piccoli indizi, suggerimenti che ci facilitavano il lavoro e ci facevano capire che il circolo omertoso si stava rompendo. Scovammo i primi bunker e i primi arsenali, che non sarebbero potuti esistere senza la complicità dei residenti delle zone in cui erano collocati. Entrando in quei bunker, stavamo lentamente entrando nelle viscere dell’organizzazione. A quel punto capimmo che potevamo soltanto vincere”.
Queste “infamità” erano spontanee o sollecitate dai vostri interrogatori?
“Lo stupore che colse me e i colleghi era dettato proprio dal fatto che le informazioni provenissero, spontaneamente, da cittadini comuni, stufi di dover sottostare all’obbligo di tacere e chiudere gli occhi. La loro collaborazione (se pure in forma anonima, perché il timore di conseguenze era sempre molto forte) fu un elemento di novità decisivo per la vittoria”.
Quale fu il momento più pericoloso della lotta al contrabbando?
“Parlare di un momento è purtroppo riduttivo. Nei mesi precedenti all’episodio gravissimo del 23 febbraio 2020, ricordo molte notti di particolare tensione, notti in cui temevo per la sorte del personale che mandavo a presidiare le coste e le strade, ma anche per la vita dei cittadini che, anche come semplici passanti, avrebbero potuto involontariamente trovarsi coinvolti nelle operazioni di polizia. I nostri uomini erano continuamente sotto attacco. Ho smesso di contare le volte in cui sono rientrati in Questura dicendomi “dottore, ci hanno sparato addosso” o “dottore, ci hanno distrutto la macchina”. Il personale di pattuglia era costantemente a rischio vita”.
Giovanni Falcone diceva che i mafiosi sono uomini come noi: tra di loro ci sono i simpatici e gli antipatici. Le è mai capitato di incontrare un contrabbandiere o un altro criminale per il quale ha provato istintiva simpatia?
“Ho sempre trattato con rispetto i criminali e non ho mai tollerato gli abusi, ma francamente no, non ho mai provato simpatia per uno di loro. Posso soltanto dire che mi è capitato di interfacciarmi con qualche boss di grande spessore criminale che, al momento della cattura, ha manifestato rispetto e forse persino ammirazione nei miei confronti e nei confronti dei miei colleghi, dicendoci “siete stati bravi a prendermi”. Forse l’avrò ringraziato, ma oltre questo non sono mai riuscito ad andare”.
C’è mai stato un momento della sua carriera in cui si è detto “ma chi me l’ha fatta fare”?
“No. Devo confidare che per tutto il periodo degli studi non ho avuto la vocazione per la divisa. Ebbi una folgorazione improvvisa dopo la laurea, quando lessi del concorso per duecento funzionari di Polizia. Una volta superate le prove e iniziato il corso a Roma, mi innamorai della vita del poliziotto. E se ti accade questo, anche le operazioni non riuscite o quelle riuscite meno bene non riescono a demotivarti”.
A distanza di venticinque anni dall’Operazione Primavera, come valuta il fenomeno della criminalità organizzata sul territorio brindisino? E, soprattutto, come lo immagina tra dieci anni?
“Le organizzazioni criminali si adeguano ai tempi. Già questo è il tempo dei reati informatici e telematici. Tra dieci anni mi aspetto una ulteriore evoluzione in questa direzione. Ma questo non è un problema soltanto pugliese, è la via che il crimine organizzato sta percorrendo a livello globale. Rendere remunerativa l’illegalità attraverso la rete sarà l’obiettivo futuro delle organizzazioni criminali, ma è già parte del loro presente”.
L’Operazione Primavera è oggi sui libri di storia: al netto di tutta la modestia possibile, lei sente dentro di sé l’orgoglio di avere fatto la storia in quello specifico contesto?
“Sento di aver fatto parte di una moltitudine di persone che hanno creduto fortemente nei valori dell’onestà, della giustizia e del servizio allo Stato, persone che, in un determinato momento storico, hanno lavorato per il bene comune ottenendo un risultato unico. Per cui sì, sono orgoglioso. Ma sono anche profondamente grato a chi, a livello politico, ha preso la decisione di dare una risposta dura al contrabbando, alla magistratura che ci ha sempre sostenuto e a tutti gli uomini e le donne che non soltanto hanno collaborato con me, ma hanno fatto molto di più di quanto non abbia fatto io. E questo ringraziamento non riguarda soltanto la Polizia di Stato, ma anche i Carabinieri e la Guardia di Finanza”.
Quando sente la parola “eroe” a che cosa pensa?
“A chiunque si impegni a fare bene ciò che è chiamato a fare. Le figure eroiche da letteratura sono lontane dal mio immaginario”.