
Di Marina Poci per il numero 361 de Il7 Magazine
A Mesagne, dove qualche giorno fa ha inaugurato il suo nuovo atelier di abiti da sposa e cerimonia per donna e per uomo, ci vive da un po’ più di quattro anni: ha acquistato una abitazione a pochi passi dal centro storico e dei suoi vicini di casa dice meraviglie (“sono stati gentilissimi sin dai primi tempi, tante volte prendiamo il caffè insieme, mi invitano spesso a cena e mi hanno sempre assicurato di poter contare su di loro per qualsiasi necessità”).
Prima di Mesagne ci sono stati Iran, Turchia, Azerbaijan, Albania, Grecia e Macedonia, poi Roma, Milano e Brindisi. Prima di tutto, però, c’era il Pakistan: la sua amatissima Karachi, i genitori che non vede da quindici anni, le tre sorelle e i due fratelli e, soprattutto, il laboratorio di sartoria nel quale suo padre, per tenerlo lontano dai guai dopo l’orario scolastico, lo ha educato alla tecnica sublime dell’ago e del filo.
La storia di Bilal Muhammad, trentadue impegnativi e densi anni al servizio dell’ottava arte, parte da una delle megalopoli più estese al mondo, la cui area metropolitana conta venticinque milioni di abitanti, e continua nella cittadina messapica di ventiseimila anime in cui ha scelto di trasferire la sua sartoria, costola creativa di un progetto imprenditoriale il cui embrione (l’attività di riparazioni e piccole modifiche) è rimasto in un locale nel centro di Brindisi, gestito da due ragazze che da anni lavorano per lui, una brindisina e una straniera.
“Era arrivato il momento di separare le due cose: a Mesagne ho voluto aprire un posto con un mio brand originale, perché non mi interessa comprare e vendere vestiti di altri stilisti, come fanno tutti. Mi piace disegnare e realizzare personalmente i miei abiti. L’ho imparato nella sartoria di famiglia, da mio padre, che ancora lavora, e mia madre, che adesso fa la casalinga. Hanno sempre cucito abiti su misura. Avevo otto anni quando ho iniziato a lavorare con loro, la moda ce l’ho nel sangue. E così i miei fratelli e le mie sorelle. Chissà, magari tra dieci anni riuscirò ad ingrandire la mia attività e a farla diventare un franchising da esportare in tutta Europa. O forse anche più in là”, racconta in un italiano corretto, contaminato in tanto in tanto da qualche “mena” e qualche “mo’”. Così sono nati i marchi Atelier Katalìa per gli abiti femminili e Sartoria Balzani per quelli maschili (“regolarmente registrati, sono andato alla Camera di Commercio e ho fatto le cose per bene”, si affretta a precisare).
Nei suoi sogni di diciassettenne scappato da casa alla volta dell’Occidente c’era Parigi: era lì che Bilal, con il suo metro e le sue forbici, voleva arrivare, per diventare un protagonista di quell’haute couture che nei suoi anni pakistani rappresentava non soltanto un’aspirazione professionale ma una svolta di vita. E di esperienze fuori ne ha avute, ma poi è sempre tornato nella Puglia che lo ha accolto con tanto calore quando è sbarcato sulla costa di Otranto, diverso tempo dopo essere partito da Karachi. Sì, perché Bilal in Italia ci è arrivato da irregolare (“clandestino”, non ha difficoltà a definirsi), a bordo di un barcone per salire sul quale ha sborsato a uno scafista di Patrasso una cifra irripetibile, frutto di due anni di durissimo lavoro tra la Siria e la Grecia: “Ho fatto di tutto: il muratore, il pittore, il lavavetri. Ogni lavoro che riuscivo a trovare era un modo per mettere da parte i soldi che mi avrebbero permesso di avere una vita migliore. Avevo sempre paura che qualcuno me li rubasse, quindi cucivo piccole tasche all’interno delle camicie, dei pantaloni e della biancheria e li nascondevo lì, in modo da tenerli sempre addosso”. Sono stati anni tremendamente complicati, per il giovanissimo Bilal, poi la Puglia gli ha spalancato il suo cuore immenso e lui se n’è innamorato: “Per questo non me ne vado. Ho vissuto in altri posti, ma soltanto qui mi sento a casa. Avevo avuto una proposta da parte di un mio ex datore di lavoro, che adesso lavora per Dolce e Gabbana. “Vieni a Milano con me”, mi ha chiesto tante volte. Gli ho risposto che a Milano ci andrò, ma soltanto per aprire un punto vendita con il mio brand. Non mi trasferirò a vivere lì, voglio restare qui e dare lavoro alle persone del posto. Qui a Mesagne già lavora con me una ragazza mesagnese, perché penso che sia giusto prendere collaboratori che conoscono l’ambiente e magari hanno confidenza con i clienti”.
Quando è arrivato era senza documenti, per sei mesi la sua casa è stato il CARA (attualmente CPA) di Restinco. Proprio nel posto al quale la sua condizione di irregolare l’ha destinato, è tornato a fare quello che i genitori, a partire dai suoi otto anni, gli avevano insegnato: “Facevo piccoli lavori di sartoria, all’inizio soltanto per gli ospiti del centro, poi anche per gli operatori. Sono persino riuscito a comprare una macchina per cucire: era molto vecchia, tanto che funzionava a pedali, ma bastava per quello che facevo. Non guadagnavo tantissimo, però era un modo per essere indipendente e poter affrontare le mie piccole necessità”. A quel tempo Bilal, innamorato dello stile francese e di tutto quanto la Ville Lumière suscita nell’immaginario di chi voglia lavorare nella moda, era ancora ancora convinto di voler andare a Parigi. Invece la direttrice del CARA gli ha proposto di restare a Brindisi: all’inizio era molto scettico, non aveva punti di riferimento, non conosceva la lingua, aveva sempre parlato soltanto l’idioma del suo Paese e l’inglese. Poi qualcosa gli ha fatto cambiare idea (“Ad un certo punto ho pensato che se non mi fosse piaciuto avrei sempre potuto tornare indietro. “Parigi non scappa”, mi sono detto”). Quindi gli operatori lo hanno aiutato a trovare un appartamento e ha cominciato a lavorare da casa, sia in proprio che per altri negozianti che avevano bisogno di modifiche agli abiti venduti. A quel punto ha aperto la partita iva (“non volevo rischiare di avere problemi con la giustizia”) e, successivamente, ha collaborato per molto tempo con altri stilisti della zona, alcuni anche molto famosi. Sino a quando non ha inaugurato il suo primo atelier a Brindisi.
Eppure, dopo tanti anni di onesto lavoro in Italia, Bilal non è ancora riuscito a ottenere la cittadinanza, perché ogni volta spunta un impedimento diverso che rallenta l’iter burocratico della richiesta e allontana la possibilità di portare nel nostro Paese la sua famiglia: “Non so cosa c’è che non va, ma da troppo tempo è tutto bloccato. Da cittadino italiano sarebbe più facile farli arrivare qui per lavorare con me. Siamo lontani da quindici anni, dopo essere scappato non sono mai più tornato in Pakistan. Per fortuna adesso le videochiamate aiutano ad accorciare le distanze, ma mia madre è sempre triste e per me è molto difficile sapere che soffre così tanto per la mia mancanza”, ammette.
In cima alla lista dei suoi desideri per il futuro c’è proprio il ricongiungimento ai suoi cari. Appena sotto, la ferma volontà di creare benessere nel territorio in cui ha scelto di vivere e di offrire un’occasione di riscatto a chi parte da condizioni di svantaggio, “perché”, dice, “io di povertà in giro per il mondo ne ho vista tanta e l’ho anche provata sulla mia pelle: è dovere di chi sta meglio contribuire a migliorare la vita degli altri”.