Coesione, equilibrio e riservatezza: la magistratura sognata da Giuseppe De Nozza

Di Marina Poci per Il7 Magazine
Appartiene a quella generazione di magistrati sui quali i fatti di Capaci e di Via D’Amelio, vissuti da giovani adulti, hanno lasciato l’impronta penetrante di una motivazione professionale fondante, categorica e non eludibile: il sostituto procuratore della Repubblica di Brindisi Giuseppe De Nozza, fresco presidente della sottosezione adriatica dell’Associazione Nazionale Magistrati (eletto martedì 27 febbraio, insieme al segretario Antonio Ivan Natali, giudice della sezione civile), non ha dubbi quando si tratta di individuare il momento esatto in cui ha compreso che lo scopo della sua vita sarebbe stato amministrare la giustizia in memoria di chi la vita, proprio per la giustizia, l’aveva persa.
Nato a Brindisi nel 1971, dopo aver conseguito la laurea nel 1994 presso l’Università LUISS di Roma con votazione 110/110 e lode e aver frequentato la scuola di preparazione al concorso, è stato nominato magistrato nel 1998 ed è in forza alla Procura di Brindisi, ininterrottamente, dal 22 maggio del 2000.
Protagonista di alcuni dei più importanti processi in materia di reati ambientali (uno per tutti, quello in cui ha sostenuto l’accusa sulla diffusione di polvere di carbone dal nastro trasportatore e dal carbonile della centrale Enel Federico II di Cerano) e di normativa anticorruzione, nel 2007 fu eletto “Brindisino dell’anno” dall’allora quotidiano cartaceo SenzaColonne.
In quella occasione il direttore Gianmarco Di Napoli, motivando la scelta, spiegò che De Nozza “ha saputo abbinare alle sue capacità professionali e al contributo fornito alle sorti della città, una tendenza alla discrezione, considerata merce rara in questo periodo, persino negli ambienti della magistratura”.
Sollecitato nei ricordi, racconta che la sua prima udienza, a giugno del 2000, fu un’udienza preliminare: di quel giorno ricorda l’emozione, il timore di non essere all’altezza dell’ufficio che rappresentava, il sollievo quando terminò, rendendosi conto di aver ultimato senza sbavature il compito per cui aveva studiato per un decennio buono.
Nel suo discorso programmatico, indirizzato ai colleghi chiamati a scegliere i sostituti di Barbara Nestore e Gualberto Buccarelli (precedenti presidente e segretario della sottosezione), ha fatto riferimento alla necessità di “rinsaldare l’unità e la coesione della magistratura brindisina” e di creare ponti tra le varie componenti della magistratura, ma anche tra magistratura e società civile, per superare le sfide che il territorio e il Paese impongono di affrontare.
In concreto, quali sono le azioni che consentono a questi magistrati-operai di costruire ponti, e non muri?
“Per ciò che attiene alla magistratura, la necessità di costruire ponti deriva dal dato normativo vigente: è il legislatore stesso che ci impone di dialogare, il giudice civile con il giudice penale, il pubblico ministero con il giudice civile, e via dicendo. Senza lo scambio generato dal dialogo, la magistratura non è in grado di svolgere in modo efficace l’azione a cui la Costituzione la chiama. Sino a qualche tempo fa, era considerato “normale” che ognuno lavorasse per proprio conto. Oggi il nostro impegno deve entrare nella prospettiva della giustizia “condivisa”. Per quello che riguarda, invece, il riferimento alla società civile, sono convinto che la magistratura – come istituzione – sia in grado di dare tanto alla società civile e, parimenti, che possa ricevere tanto. In concreto: all’esterno occorre estendere il nostro raggio d’azione al mondo universitario, alle categorie produttive, agli ordini professionali; all’interno, abbiamo l’obbligo di percorrere fino in fondo la strada dei protocolli, che di per sé presuppongono accordo e scambio tra mondi diversi. Ovviamente a questa logica non può rimanere estranea l’avvocatura, che con noi sostiene la responsabilità dell’amministrazione della giustizia”.
Qual è il suo rapporto con il Foro brindisino?
“Ho svolto il ruolo di pubblico ministero soltanto a Brindisi e posso dire che in tutti questi anni di lavoro i rapporti con gli avvocati sono sempre stati caratterizzati da grande garbo e da rispetto reciproco. Se dovessi individuare il tratto distintivo dell’avvocatura brindisina, oltre alla competenza professionale, indicherei la signorilità”.
Il primo provvedimento che adotterebbe domani mattina, se si svegliasse da ministro della Giustizia?
“Un provvedimento di depenalizzazione di una certa ampiezza, per consentire agli Uffici di ripartire da zero e all’azione della magistratura di essere efficace. Purtroppo tutte le riforme che si sono susseguite non hanno inciso in modo significativo sull’arretrato accumulatosi nel corso del tempo a causa del numero limitato delle risorse umane a disposizione. Se fossi il ministro della Giustizia, mi adopererei per far tornare il diritto penale alla sua originaria funzione, quella di presidiare gli interessi di rilevanza costituzionale lasciando alle altre sanzioni il compito di intervenire negli ambiti diversi”.
Rispetto alla legge cosiddetta “bavaglio”, come pubblico ministero qual è la sua posizione?
“Come magistrato, una volta che una legge entra in vigore, sono tenuto ad applicarla. Se ritengo che un valore tutelato dalla Costituzione sia stato compromesso, ho a disposizione uno strumento efficacissimo, investendo della questione la Corte Costituzionale. E questa, da quando svolgo le funzioni di magistrato, è la mia posizione rispetto a tutte le leggi”.
Nella dichiarazione di intenti destinata ai colleghi prima dell’elezione a presidente, ha parlato di un ruolo quasi di “supplenza” della magistratura “in un territorio caratterizzato da un fragile equilibrio di legalità, nel quale le istituzioni dello Stato e, in particolare, la magistratura, sono state spesso chiamate a colmare lo spazio lasciato vuoto da altri”: chi ha liberato questo spazio e come la magistratura ci si è incuneata dentro?
“Era una considerazione di carattere generale che riassumeva le percezioni non soltanto del magistrato, ma anche del cittadino residente sul territorio. Il nostro è un territorio dagli equilibri di legalità molto fragili: non è complicato ripristinarli, ma è oggettivo che con la stessa facilità quegli equilibri possono essere alterati. In una situazione territoriale di questo tipo, la magistratura deve esprimere autorevolezza e, soprattutto, coesione. Se un’istituzione esprime conflitto e contrapposizione interna, si aprono spazi per l’illegalità”.
Sembra di capire che quello della unità interna della magistratura rappresenterà un punto focale del suo mandato.
“Lo sarà. La mia candidatura si è posta in continuità con il lavoro prezioso di chi mi ha preceduto anche in questo senso: la direzione da intraprendere è quella della tutela dell’istituzione, senza autoreferenzialità, ma superando tutte le eventuali fratture delle quali i fautori dell’illegalità potrebbero approfittare”.
Rispetto alle specifiche esigenze del territorio brindisino, su quale fronte è più importante agire? Repressivo, preventivo, culturale?
“Su tutti. La repressione non può essere considerato l’unico percorso battibile e la prevenzione non può farsi senza incidere sul profilo culturale. In quest’ottica il magistrato può diventare un modello di legalità al quale i giovani possano guardare trovandolo stimolante da recepire e da scegliere. La chiave di tutto sta nell’alzare la qualità media del tessuto sociale, così che gli esempi di legalità non siano imposti, ma accolti: sono fiducioso che i magistrati, non da soli, ma insieme ad altri, possano farsi carico di quest’obiettivo”.
Qual è la qualità più importante del magistrato?
“Non ho dubbi: l’equilibrio. E metterei sullo stesso piano la riservatezza. Li ritengo i più importanti dispositivi di scorta di cui il magistrato possa disporre”.
Paolo Borsellino, immaginando il discorso da tenere in occasione del funerale dell’amico Falcone, lo definì un “testa di minchia, uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”, in qualche modo facendo intendere che è illusorio battere l’illegalità mantenendosi nelle maglie strette della legalità: sul serio il magistrato può essere colto dalla tentazione di forzare la mano e, se sì, come riesce a vincerla?
“Per quanto mi sforzi, non riesco a immaginare un magistrato che forzi la mano per raggiungere un obiettivo di legalità. Non è pensabile accettare che nel mondo della giustizia valga il principio del fine che giustifica i mezzi. Nessun fine, nemmeno il più nobile, può avallare, per un magistrato, il ricorso a mezzi che abbiano a che fare con l’illegalità”.
Senza Colonne è su Whatsapp. E’ sufficiente cliccare qui  per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati
Ed è anche su Telegram: per iscriverti al nostro canale clicca qui