Di Marina Poci per Il7 Magazine
Sentirsi chiamare archistar (“titolo che utilizzano soprattutto gli amici”, dice) lo imbarazza, più che lusingarlo, eppure se una parola ci fosse, a compendiare tutta la straordinaria carriera di architetto di Claudio De Gennaro, brindisino da anni residente a Modena, sarebbe esattamente questa, sebbene nell’accezione migliore e più positiva dell’espressione: membro della Commissione per la qualità architettonica e il paesaggio del Comune di Modena, specializzato nella realizzazione di edifici residenziali, commerciali e industriali, oltre che in interventi di restauro e recupero, progettista del Club House della Ferrari-pista a Fiorano modenese, di alcuni hotel della catena Fini e di vari centri direzionali, De Gennaro è uno degli architetti urbani italiani più stimati e ricercati anche all’estero e alla sua esperta professionalità è stato affidato uno degli interventi di restauro più prestigiosi mai compiuti in Italia su un edificio d’epoca, il rifacimento delle facciate interne del cortile d’onore del Palazzo Ducale di Modena, già reggia degli Estensi e attualmente sede della prestigiosa Accademia Militare dell’Esercito Italiano.
“Un’operazione a cuore aperto”, l’ha definita lui stesso, dal momento che si è intervenuti sul luogo simbolo dell’Accademia, dove ogni anno gli allievi ufficiali prestano il giuramento di rito. E proprio in occasione del giuramento del prossimo 8 marzo sarà possibile apprezzare in tutta la sua bellezza l’opera di restauro diretta dal professionista brindisino, della quale in queste settimane si stanno mettendo a punto gli ultimi dettagli (mentre a fine anno saranno svelati i lavori progettati da Gennaro su una delle facciate).
Ne è passato di tempo da quando, sulle ginocchia di papà Nino, indimenticato pittore e scultore scomparso nel 2006, disegnava e dipingeva sognando di rendere lavoro la passione in mezzo alla quale è stato allevato. E quando rievoca con emozione le parole del genitore (“l’architetto fa il mestiere più bello del mondo”), racconta di quell’imprinting che ha permeato di sé l’intera famiglia di architetti, tutti di scuola veneziana: il fratello Massimo, con il quale ha realizzato opere significative sino al 2005, e l’ultima arrivata in studio, Chiara, tornata in Italia dopo un’importante esperienza a Parigi (al fianco dell’urbanista di fama mondiale Dominique Perrault) e un lavoro di cinque anni nella società di architettura Allford Hall Monaghan Morris, impegnata nella riqualificazione e rigenerazione delle ex sedi della televisione BBC.
Pure a 800 e passa chilometri di distanza, De Gennaro ci spalanca le porte del suo studio in videochiamata: ci presenta le persone che lavorano con lui, in particolare Chiara, attualmente alle prese con la progettazione di un edificio residenziale; ci mostra i luoghi dove le opere che realizza da idee e concetti si trasformano in manufatti; ci invita in quello che chiama “il mio pensatoio”, la stanza nella quale raccoglie i pensieri, consuma le matite e allena le sue fantasie architettoniche più visionarie.
È qui che è nato, circa cinque anni fa, il progetto di recupero di alcuni container usati per creare un luogo di lavoro per una cinquantina di giovanissimi professionisti della Hpe Coxa, specializzata nell’ingegneria per il settore automobilistico, motociclistico e dell’automazione: una eccezionale opera di economia circolare in cui le sedute sono degli sgabelli in alluminio riciclato facenti parte degli arredi di sommergibili americani degli anni Cinquanta, i portelloni dei container diventano tavoli da riunione, le chaise longue sono in cartone pressato riciclato e i tetti-giardino, sui quali insistono pannelli solari, raccolgono l’acqua piovana per alimentare i servizi igienici e annaffiare le piante.
E mentre, telefono alla mano, passeggia per le stanze dello studio inquadrando ogni angolo del suo luogo di lavoro, ci porta anche a spasso per i principi ispiratori della sua attività: progettare pensando che ogni opera debba resistere nel tempo, integrare gli edifici con l’ambiente nel quale vengono realizzati, conoscere il passato ed essergli riconoscente, lavorare sull’armonia tra costruzione e paesaggio, su dentro e fuori, su vuoti e pieni.
Il suo primo lavoro importante? Quello terminato il quale ha pensato “ce l’ho fatta”?
“Tutti i lavori sono importanti, un architetto che lavora con passione, e non per fare cassa, si affeziona a tutti i suoi progetti. Dei primi ricordo soprattutto l’ansia di non essere all’altezza dei compiti che mi erano stati affidati. Andavo in cantiere di notte, quando non erano presenti i colleghi e le maestranze, per rendermi conto meglio di come cresceva l’edificio, studiare le proporzioni al buio, capire se potevano esserci dettagli a cui non avevo pensato. Se devo ricordarne uno in particolare, allora cito la tribuna dell’ippodromo della Ghirlandina, qui a Modena, realizzata insieme a mio fratello Massimo: una tensostruttura che è piaciuta a spettatori e addetti ai lavori, un lavoro molto pubblicato su diverse riviste specializzate. Un altro progetto molto interessante è stato quello relativo allo showroom di Calvin Klein a New York, sulla Quinta Strada”.
Rispetto a quando lei ha cominciato, com’è cambiata la professione dell’architetto? Le manca la dimensione più artigianale del suo lavoro?
“Sicuramente si è modificato, all’inizio c’è stato bisogno di una grande capacità di adattamento. Ma le confesso che io continuo a sentirmi un artigiano. Lavoro al computer, ma ho sempre bisogno di intervenire sul progetto cartaceo con le decine di matite colorate seminate per tutto lo studio. Ogni tanto i miei collaboratori mi rimproverano perché faccio stampare tutto e consumo molta carta”.
Parliamo di Palazzo Ducale: lo considera il coronamento della sua attività professionale?
“Mia figlia lo definisce così, io preferisco non dare troppe definizioni. Quel che è certo è che sento forte la responsabilità di intervenire su un edificio così prezioso e imponente. Si tratta di un palazzo che ha una storia di costruzione di quattro secoli, durante i quali da residenza è stato trasformato in una caserma-scuola. Gli allievi ufficiali lo vivono con grande rispetto e con lo stesso rispetto mi sono accostato io all’opera di rifacimento: quando ti chiamano a occuparti di un palazzo sul quale prima di te hanno lavorato i più grandi architetti del barocco italiano, come Avanzini, Bernini e Borromini, devi limitarti a valorizzare, non puoi permetterti di eccedere”.
Che tipo di interventi ha effettuato?
“Siamo intervenuti non soltanto sulle facciate, dove c’era un serio problema di infiltrazioni, ma abbiamo colto l’occasione di agire anche sull’impiantistica. Insieme a una ditta specializzata e d’accordo con la Sovrintendenza, abbiamo compiuto uno studio illumino-tecnico che ci consentirà di esaltare meglio, con le luci più appropriate, il disegno barocco dell’edificio”.
Uscendo dal territorio modenese e venendo a Brindisi, quali sono i tre interventi che le piacerebbe realizzare per valorizzare la sua città di origine?
“Ci sarebbero molte cose, non necessariamente di grande impegno economico. Renzo Piano parla spesso di “rammendo delle periferie”, riferendosi a tanti piccoli interventi, non eclatanti, ma continui, per cercare di tirare fuori il meglio dai quartieri mai valorizzati. La stessa cosa si dovrebbe fare a Brindisi, ma nelle aree più centrali, cercando di tirare fuori la storia della nostra città, così maltrattata e trascurata. Le faccio l’esempio del Teatro Verdi: con piccoli interventi modificativi su illuminazione, vetrate e accessi, risalterebbero gli scavi, che al momento sembrano confinati in un sottoscala, e ne guadagnerebbe anche la struttura superiore. E ancora, Santa Maria del Casale: è mai possibile che una delle nostre chiese più preziose resti così appartata, penalizzata dai parcheggi che la circondano, mortificata da una illuminazione inadeguata? Le ho citato i primi due siti sui quali interverrei, ma potrei farle decine di esempi, a partire dal grande lavoro che si potrebbe fare sulla zona industriale”.
Soffre quando torna a Brindisi?
“Molto. Soprattutto perché ho la consapevolezza che basterebbe davvero poco per renderla bellissima”.
Cosa manca?
“Una visione chiara di città, un progetto unitario, un’idea di fondo che leghi il nostro glorioso passato, rispettandolo, al futuro che tutti i brindisini meritano di avere. A Brindisi vige il principio dell’urbanistica dell’emergenza. Dovremmo puntare, invece, ad un’urbanistica visionaria. La città non deve soltanto funzionare, deve poter sognare. Non è sempre e soltanto un problema di costi, è spesso una questione di coraggio”.
Ha seguito la questione del mercatino dei vinili all’interno della Sala del Capitello di Palazzo Nervegna?
“Sì, l’ho seguita. Con sofferenza, se posso permettermi. Quando parlo di rispetto per il passato come base per il futuro, mi riferisco esattamente ad evitare iniziative del genere”.
Nella sua vita professionale ha realizzato moltissimo: c’è qualcosa che le manca?
“Sì, mi manca l’acqua”.
Prego?
“Beh, mi manca poter realizzare qualcosa sull’acqua, la nostra acqua. Ho fatto degli interventi in prossimità del mare in Toscana e in Liguria, ma è un altro mare. Il nostro porto è unico, la piazza di Brindisi è il porto, è su quello che bisogna lavorare. Basta poco per creare bellezza”.
Cos’è per lei la bellezza?
“Armonia. Tra l’edificio e il posto in cui viene realizzato e tra l’interno e l’esterno di quell’edificio”.
I suoi sogni sono tutti usciti dai cassetti o ne conserva ancora qualcuno, magari in una delle tante scrivanie del suo studio?
“Se dovessi risponderle come vorrebbe mia figlia, le direi senz’altro che sarebbe interessante lavorare sul progetto di restauro e riqualificazione di una masseria in Puglia. Ma, visto che l’intervistato sono io, allora le dico che il mio sogno nel cassetto ha a che vedere con il porto di Brindisi e con tutto ciò che gli gravita intorno. Mi piacerebbe lavorarci, magari coinvolgendo i giovani architetti del territorio”.
Ancora una volta, il suo cuore brindisino la riporta sull’acqua.
“E che posso farci? È un richiamo irresistibile”.
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