di Marina Poci
All’inizio facevano lezione in un garage in aperta campagna, al quale si poteva arrivare soltanto passando per un viottolo sterrato. Niente acqua corrente, niente sistema fognario, nessuna illuminazione pubblica. Buona parte delle abitazioni, da quelle parti, erano al di sotto del piano stradale, estremamente umide durante i mesi freddi, soffocanti in estate. In quel garage le sedie erano una diversa dall’altra, perché rimediate in case diverse, a seconda delle disponibilità di ognuno. C’era un vecchio tavolo da ping-pong a cui sedevano, stipati uno accanto all’altro, almeno un paio di decine di bambini e ragazzi, tutti studenti di elementari e medie, ché a quei tempi già riuscire a frequentare le scuole dell’obbligo, a contrada Furchi, quartiere ai margini di San Vito dei Normanni, pareva un miracolo. Poi si trasferirono in via Botticelli, nell’ultima casa della strada, presa in locazione da quel gruppo di insegnanti visionari che si accollarono, un po’ ciascuno, i costi dei canoni e delle utenze. Durò dal 1973 al 1978, ma gli effetti di quell’esperienza, passata alle cronache locali come “doposcuola popolare di contrada Furchi”, si percepiscono ancora adesso, a distanza di cinquant’anni, in tutte quelle vite il cui percorso – che poteva apparire già segnato – fu inaspettatamente deviato verso il bello e il bene.
Di quell’avventura Alfredo Passante, sanvitese, professore in pensione di matematica e fisica tra scuole medie, tecnici industriali e liceo linguistico, fu artefice insieme al compianto professore Lorenzo Caiolo. Insegnavano gratuitamente, ispirati dai principi educativi di don Lorenzo Milani, il sacerdote toscano, di cui quest’anno ricorre il centenario di nascita, che, con “Lettera a una professoressa”, spolverando un’istituzione stantia e ammuffita come era la scuola degli anni Sessanta, attirò su di sé l’entusiasmo degli ultimi e le ire dei potenti (molti dei quali avevano addosso l’abito talare).
Dell’esperienza in contrada Furchi si è parlato venerdì 20 ottobre in un incontro presso l’associazione Giuseppe Di Vittorio di Mesagne, durante il quale, ad una trattazione su don Milani ad opera del professore Giancarlo Canuto, è seguito il ricordo dell’esperienza sanvitese da parte del professor Passante.
Ha sempre fatto l’insegnante?
“Sì, da prima ancora di laurearmi. Per i primi anni della mia professione, insegnai all’industriale Giorgi. Dopo aver letto le lettere di don Milani, scelsi la scuola media: volli fare il “missionario”. Poi nacque il doposcuola di contrada Furchi e la missione continuò anche fuori dalla scuola”.
E come andò, questa missione?
“Fu un’esperienza entusiasmante, la più significativa della mia vita. Io ho fatto politica attiva per oltre quarant’anni, ma non c’è mai stato niente di paragonabile a contrada Furchi”.
Come nacque il doposcuola popolare?
“Nel 1973 incontrai un giovane, di qualche anno più piccolo di me, che aveva frequentato il seminario con l’idea di diventare frate. Poi abbandonò quel proposito e si iscrisse all’università, alla facoltà di Filosofia. Facevamo lunghissime chiacchierate e scoprimmo di avere a cuore le stesse problematiche sociali. Aveva casa a Contrada Furchi, un posto di periferia in cui non c’era nessun servizio, abitato quasi completamente da famiglie i cui padri erano emigrati in Germania, perché qui il lavoro scarseggiava. I ragazzi avevano enormi difficoltà scolastiche, oltre che di inserimento sociale, vivevano allo sbando, senza punti di riferimento. Così decidemmo di avviare questa esperienza di doposcuola gratuito. Cominciammo io e il professor Lorenzo Caiolo, straordinario docente e amministratore, che più tardi diventò assessore e dopo ancora sindaco. Poi si unirono altri amici, ad esempio l’architetto Enzo Longo. Avevamo letto, oltre a Lettera a una professoressa, buona parte dell’epistolario del priore di Barbiana. Eravamo imbevuti di testi stupendi come “Cristianesimo, liberazione umana, lotta di classe”, di Giulio Girardi, “La pedagogia degli oppressi”, di Paulo Freire, e “La terra è di Dio”, di don Giovanni Franzoni, abate della basilica romana di San Paolo fuori le mura. Eravamo giovani e ansiosi di applicare nel nostro contesto cittadino quei principi che tanto ci avevano entusiasmato. La “coscientizzazione”, innanzitutto.”
Cosa significava “coscientizzare” questi bambini e ragazzi?
“Significava sforzarsi di avviare un processo di presa di coscienza, come diceva Paulo Freire, da cui poi potesse partire un processo di denuncia e di rivendicazione dei diritti. Presa di coscienza della situazione in cui si trovavano, delle carenze del quartiere, in cui mancavano i servizi essenziali, del degrado in cui vivevano le loro famiglie, i cui padri spesso si legavano ad altre donne in Germania, abbandonando moglie e figli di San Vito. Eravamo aperti non soltanto nel periodo scolastico, ma anche durante le vacanze natalizie, pasquali ed estive. Li portavamo in giro fuori da contrada Furchi, perché vedessero tutto quello che c’era al di fuori del loro angusto mondo. Il sabato veniva da noi un sacerdote a commentare il Vangelo: vedevamo i ragazzi stupiti di apprendere che la buona novella è rivolta ai poveri. Erano abituati a essere considerati come nullità, noi stavamo dando loro una speranza”.
Non soltanto alfabetizzazione, dunque.
“L’alfabetizzazione era necessaria a prendere coscienza. Ma non era sufficiente. Spingevamo i ragazzi ad affrontare in modo critico i compiti assegnati. Non dovevano soltanto scrivere bene, dovevano scrivere la verità. Un tema la cui traccia era ” Descrivi la tua cameretta” poteva seriamente mettere in difficoltà un bambino abituato a dormire in una casa in cui nella stessa stanza dormivano in dieci. Era molto frequente che si lasciassero andare ad uno svolgimento di fantasia. Ecco, noi li incoraggiavamo a raccontare la loro realtà, a non edulcorare le cose. Questo atteggiamento creò non pochi attriti con i docenti, che ci accusarono di fare propaganda politica e di plagiare gli alunni”.
Le stesse identiche accuse rivolte a don Milani.
“Precisamente. Ma eravamo preparati, la cosa non ci stupì più di tanto. Avevamo ottenuto risultati ottimi, anche perché questo processo di coscientizzazione lo avevamo esteso ai genitori, che erano diventati estremamente combattivi”.
Erano in qualche modo coinvolti anche i genitori nelle vostre attività?
“Appena iniziammo, alcuni genitori, nonostante vivessero in condizioni di povertà estrema, ci chiesero di stabilire una quota per il nostro lavoro. A volte non riuscivano a mangiare, ma volevano pagarci per quello che stavamo facendo per i loro figli. Ovviamente ci rifiutammo, ma credo che quel gesto abbia catturato la loro fiducia. Piano a piano iniziarono ad essere più presenti. Ricordo un incontro, in cui era previsto l’intervento di un avvocato, che vide la partecipazione anche di molti genitori”.
Perché invitaste un avvocato?
“Per spiegare uno per uno i princìpi fondamentali della Costituzione, che per don Milani era importante quanto il Vangelo”.
Agli insegnanti non eravate simpatici. La politica locale, invece, come reagì?
“All’inizio con diffidenza, soprattutto a destra. Poi, nel 1975, i partiti di sinistra si presentarono chiedendo di candidare con la loro coalizione uno dei nostri. La scelta cadde su Lorenzo Caiolo, un abitante di contrada Furchi, a cui i sanvitesi diedero un consenso straordinario. Diventò assessore ai Servizi Sociali e fece cose che in Puglia non si erano mai viste, come il centro diurno per gli anziani. Creò la Fratellanza Popolare, un’associazione di volontariato che si adoperò in tanti contesti”.
C’è un alunno che ricorda un modo particolare, o la cui storia ritiene emblematica della vostra esperienza?
“Moltissimi. Ricordo una famiglia con tre o quattro figli, il cui papà si tolse la vita, forse perché non riusciva a fare fronte al mantenimento dei suoi cari. Fu per tutti loro un momento durissimo, per cui trovarono in noi delle ancore di salvezza. E funzionò. C’era il rischio che sbandassero, invece tutti mantennero la barra dritta. La sorella maggiore adesso lavora in un istituto in Vaticano. Un altro ragazzo, che durante il doposcuola era un terremoto, è diventato un poliziotto. E poi ci sono negozianti, operai, agricoltori. Tutti hanno un lavoro onesto e sono brave persone”.
Avete letteralmente salvato delle vite.
“Penso di sì. Abbiamo dato degli esempi forti e i ragazzi sono stati bravi a farsi ispirare. Addirittura riuscimmo a portare a San Vito anche don Giovanni Franzoni, uno dei nostri autori di riferimento, le cui parole incantarono i ragazzi”.
Non era scontato che si lasciassero incantare, considerato che vivevano in contesti fortemente marginalizzati, certamente più contigui al disincanto e al cinismo.
“Non era scontato per niente, ma noi avevamo scelto con entusiasmo di fare nostra la grande scommessa di don Milani e, molto lentamente, anche i ragazzi cominciarono ad accoglierla”.
Perché finì?
“Lorenzo aveva un impegno politico a tempo pieno, tanti altri collaboratori lasciarono San Vito o iniziarono ad avere professioni inconciliabili con il doposcuola. Finì, ma in quei cinque anni incise in modo indelebile sulla nostra comunità e nelle vite di tutti noi che vi partecipammo”.