La Generazione Z prende il controllo del clan Scu: a 25 anni comanda persino in carcere

di Gianmarco Di Napoli per il7 Magazine

Due anni fa finì in carcere su denuncia dei suoi vicini di casa, vittime di atti di sopraffazione e prevaricazione “al fine di imporre nel palazzo condominiale ove abita le proprie volontà, in disprezzo di ogni regola e di tutti i diritti degli altri condomini” di piazza Raffaello, al rione Sant’Elia. Lo stesso appartamento dal quale evase l’anno precedente dov’era detenuto agli arresti domiciliari in un’inchiesta su un’associazione mafiosa dedita allo spaccio e alle estorsioni. Nel 2016 venne arrestato con il fratello per lesioni personali aggravate e detenzione di armi da fuoco: spararono contro due pregiudicati per un fidanzamento non gradito.

Sembra il curriculum di un anziano boss navigato ma in realtà Gianluca Volpe, detto “Luca”, ha appena compiuto 25 anni. E’ lui, secondo la Dda di Lecce, il nuovo capo di uno dei clan più importanti della Sacra corona unita brindisina, quello “Romano-Coffa”: un ruolo ereditato dalla sua stessa famiglia, essendo l’ultimo rampollo dei Coffa. La mamma Annarita viene considerata un personaggio di primo piano dell’organizzazione.
Volpe è il primo “capo” della “Generazione Z”, quella dei post-Millennials. La procura antimafia lo individua come il “maschio libero” più alto in grado del gruppo criminale che opera tra i rioni Sant’Elia e Paradiso dopo gli arresti del boss Andrea Romano (zio del giovane in quanto sposato con la sorella della madre, poi divenuto collaboratore di giustizia), Alessandro Polito, Francesco e Alessandro Coffa.

Volpe è anche il primo a comandare della terza generazione della Sacra corona unita. Per intenderci, lo zio Andrea Romano era figlio di Gino Romano, detto Ramarro. E i Coffa, famiglia numerosissima e non tutta per fortuna coinvolta in vicende giudiziarie, dagli anni Ottanta compaiono in decine di indagini della procura di Brindisi e di quella antimafia di Lecce.

Quando dunque Volpe assume il controllo del clan, gestendo una parte del racket delle estorsioni e dello spaccio di sostanza stupefacente, non ha alcuna necessità di utilizzare la forza o comunque toni minacciosi per affermare la propria supremazia, né per obbligare i commercianti a pagare il pizzo o i pusher a cedere una parte dei proventi dello spaccio. Il ragazzo si ritrova a guidare una macchina rodata, nella quale è sufficiente mandare anche solo la fidanzata nei bar e nelle pizzerie taglieggiati per ritirare la somma di denaro quotidiana. I gestori degli esercizi commerciali, pur contro la loro volontà, erano ormai rassegnati a dover pagare il pizzo, nell’ambito di un rapporto di soggezione sedimentato negli anni.

Esiste un nuovo termine coniato per indicare il pagamento della tangente, che sia quella sborsata dai commercianti o dagli stessi spacciatori che devono contribuire alle casse dell’organizzazione: il “punto”. Ossia una percentuale sugli incassi, che siano leciti (nel caso di quelli pretesi dai titolari degli esercizi commerciali) o illeciti (vendita al dettaglio di sostanza stupefacente).
Ed è lo stesso Volpe, dicono gli inquirenti, a operare la divisione dei proventi, parte dei quali vengono destinati ai membri del clan detenuti, secondo il classico schema mafioso per cui i componenti dell’organizzazione che finiscono in carcere, quindi ridotti all’inoperatività, ricevono il “pensiero” dai membri del clan rimasti ancora liberi e dunque nelle condizioni di proseguire nelle attività illecite. Il mutuo soccorso che è alla base di ogni organizzazione mafiosa.

Le estorsioni attribuite al giovane, su larga scala e coinvolgenti numerosi esercizi commerciali, hanno evidenziato il pieno controllo del suo clan sul territorio. Per altro il ricatto ai commercianti non sarebbe stato perpetrato da Volpe “in solitaria”, bensì con il contributo di altri componenti del clan, anche e soprattutto giovani donne, che svolgevano il ruolo di volta in volta di autisti e o di incaricati al ritiro del denaro. Il tutto per far sì che la vittima avvertisse chiaramente di essere in balia di un gruppo criminale e non di un singolo individuo.
Gli vengono inoltre attribuite numerose evasioni dagli arresti domiciliare a dimostrazione di come fosse disposto – osservano gli inquirenti – anche a violare gli arresti pur di continuare a gestire le attività illecite del clan. E il suo ruolo apicale gli viene riconosciuto in quella che viene considerata una sorta di esame di laurea del crimine, ossia l’accoglienza da parte della comunità carceraria: quando nel marzo 2020 viene arrestato dalla squadra mobile e rinchiuso nella casa circondariale di via Appia, viene immediatamente investito di un ruolo di supremazia, suscitando il rispetto degli altri detenuti, i quali evidentemente ne riconoscono il superiore spessore criminale e l’appartenenza a un clan storico della Sacra corona unita. Appena mette piede in carcere i detenuti gli mettono subito a disposizione un telefonino cellulare con il quale effettua le prime conversazioni “carcerarie”, intercettate dalle forze dell’ordine.

Nel corso delle telefonate rassicura con orgoglio la fidanzata e alcuni amici di essere stato investito dai detenuti della responsabilità di tutto il secondo piano del carcere: “Cosa ti devo dire, che abbiamo preso il carcere in mano”, dice.
Effettivamente in breve tempo all’interno del circuito carcerario vennero riscontrate dagli agenti composizioni di dissidi proprio da parte di Volpe: “Li devo prendere io per forza i provvedimenti di là, hai capito? Non può decidere nessuno, solo io”, dice alla fidanzata parlandole dalla sua cella con un telefonino.

Il carattere “mafioso” dell’agire del giovane – sottolineano gli inquirenti – si coglie anche nel momento in cui si oppone alle forze dell’ordine recatesi, nell’ottobre 2019, presso l’abitazione di un collaboratore di giustizia, sottoposto a programma di protezione, per prelevare il suo nucleo familiare e metterlo in sicurezza. Volpe tenta di impedire fisicamente che gli agenti portino a termine il loro compito. Il tutto davanti a decine di residenti degli edifici popolari, urlando in dialetto: “Voi qua non entrate, il ragazzo non è infame, infami in questa casa non ce ne stanno, l’infame è già a bordo della vostra auto”, riferendosi al collaboratore di giustizia.

Assai rilevante, nell’ottica dell’affermazione della mafiosità del gruppo e del ruolo di Gianluca Volpe, viene considerata la scoperta che egli si è appropriato senza averne diritto di un alloggio di edilizia residenziale pubblica utilizzandolo solo per tenerci il suo cane. Per altro proprio il controllo degli alloggi popolari, per i quali chi ne aveva necessità non doveva inserirsi nelle graduatorie ufficiali ma rivolgersi esclusivamente al clan, accredita la presenza di un clan mafioso nel territorio, potendo accrescere in tal modo sia le risorse economiche (attraverso il pagamento di corrispettivi in denaro per l’”assegnazione” degli immobili), sia il prestigio (visto che il sodalizio si appropria, in tal modo, di poteri e competenze prettamente statali).

Oltre a Volpe, nell’operazione condotta dalla squadra mobile, sono stati arrestati: Marcello Campicelli (di Brindisi, 59 anni); Alessandro Coffa (di Brindisi, 40 anni); Valerio Protopapa (di Brindisi, 49 anni); Francesco Raia (di Brindisi, 41 anni); Salvatore Mario Volpe (di Brindisi, 28 anni). Sono stati disposti gli arresti domiciliari nei confronti di: Giovanni Bagnuli (di Brindisi, 70 anni); Pietro Corsano (di Brindisi, 54 anni); Salvatore Antonio Del Monte (di Brindisi, 30 anni); Daniela Elia (di Brindisi, 53 anni); Rosaria Lazoi (di Brindisi, 61 anni); Nyuma Clarissa Lazzaro (di Brindisi, 23 anni); Giovanni Quinto (di Brindisi, 24 anni); Marco Sirena (di Brindisi, 33 anni); Cosimo Totleben (nato a Bologna, residente a Brindisi, 38 anni).