di Gianfranco Perri
Agostino Chimienti – papa Ustinu per tutto il popolo brindisino – nacque a Brindisi il 27 settembre 1832, da Cesare e da Rosa Generosa Palumbo; fu canonico del capitolo metropolitano di Brindisi.
É stato uno dei primi, e verosimilmente il maggiore, tra i poeti dialettali brindisini, e le sue poesie sono state raccolte e pubblicate in ben quattro edizioni, di cui la quarta postuma: “Puisii alla Brindisina di papa Ustinu Chimienti”, Lecce 1867; “Poesie in dialetto brindisino del canonico Agostino Chimienti” – seconda edizione corretta ed accresciuta con prefazione del professor Lorenzo Calabrese, Brindisi 1889; “Scrasci Cavaddini e Rosi Tamaschini poesie in dialetto brindisino del canonico Agostino Chimienti” – terza edizione con l’aggiunta di tutte le nuove poesie, Brindisi 1893; “Poesie in dialetto brindisino di Agostino Chimienti” – con introduzione note e glossario di Edoardo Pedio, Brindisi 1955. Quasi sempre, comunque, prima della raccolta e pubblicazione in un volume, le poesie di papa Ustinu venivano rese pubbliche sui vari giornali locali a mano a mano che il poeta le componeva.
«…Accolto giovinetto nel locale Seminario arcivescovile, allora fiorente per serietà di studi e valore d’insegnanti, poté, con la guida del canonico Francesco De Castro ed ancor più del canonico Francesco Marzolla, romantico manzoniano, attendere alla sua formazione spirituale e culturale.
Ordinato sacerdote, non ebbe difficoltà nel contemperare le esigenze della missione liberamente abbracciata e la realtà del tempo in cui visse. Sacerdote per libera vocazione fu al servizio del suo popolo seminando la buona novella e schierandosi sempre in difesa dei poveri e dei deboli.
Spettatore e attore della vita cittadina e amante della sua città, ebbe il dono di saper correggere ogni stortura che cadeva sotto i suoi occhi. Né si lasciò mai sopraffare da vuoti sentimentalismi o da isteriche collere quando sentì di far giungere a chi di dovere, affidandole alla poesia, le sue rimenate, che non provocavano rancori né risentimenti proprio perché, coscientemente o incoscientemente, il motto latino ‘castigat more ridendo’ trovò in lui un suo cultore. Volevano essere le sue, sollecitazioni a bene operare nell’interesse della collettività e del singolo. E disse pane al pane e vino al vino, senza remore e senza compromessi, con tutta franchezza, come se quella fosse la sua missione, come se per quello egli fosse nato. E così, meriti e demeriti, virtù e vizi, usi ed abusi, avvenimenti lieti e tristi, scene esilaranti e malinconiche rappresentazioni, passando per il filtro della sua mente e del suo cuore, divennero poesia.
Egli, che incarna l’anima della sua gente e ne è schietto interprete, coglie e rappresenta, con ricchezza di toni e forza di espressione, i vari aspetti della vita cittadina vestendoli dell’idioma del popolo e legando così il suo nome alla poesia dialettale brindisina. E quando la poesia dialettale è autentica, come nel nostro papa Ustinu, essa – a buon diritto – assurge a vera e propria opera d’arte.
Si può affermare che la poesia dialettale brindisina nacque con lui come una doviziosa dote che avrebbe dato abbondanti e ottimi frutti. Fu un esperto e profondo conoscitore dell’animo della sua gente e ne rappresentò, con rara forza espressiva, virtù e vizi con i suoi versi dialettali.
La vita brindisina di fine secolo fu da lui rappresentata con la impassibile precisione del clinico che individua la diagnosi di un morbo e prescrive la terapia atta a debellarlo. Se non ci fossero fonti dirette ed indirette – e ce ne sono, in verità, ben poche – la storia dell’Ottocento brindisino potrebbe essere ricostruita attraverso la poesia di papa Ustinu, perché essa costituisce un panorama concernente ogni aspetto della vita cittadina, dall’igiene alla salute pubblica, alla politica, alla religione, dalle tradizioni alle specialità gastronomiche…» [Alberto Del Sordo in “Ritratti Brindisini” Edit. Adda, Bari 1983].
«…Trasferita la casa municipale alla nuova sede, più consona alle esigenze della città che s’ingrandiva, il 3 febbraio 1891 fu deliberata la demolizione dell’arcata, cioè della loggia antistante all’antico seggio, per poter allargare la piazza Sedile e la strada omonima. Questa demolizione addolorò non poco gli abitudinari che proprio in quella loggia si riunivano a prendere il fresco ed a far quattro chiacchiere. Tra questi, papa Ustinu Chimienti, don Pascali Fuscu, e papa Giustinu Minunni, che avevano la inveterata innocente e monotona abitudine di fare una breve passeggiata quotidiana in piazza a commentare i piccoli fatti cittadini del giorno. Il più autorevole della geniale compagnia, papa Ustinu, che pure era uomo senza punte e buontempone, si fece eco del dolore e del malcontento comune, pubblicando dei versi che, se non furono un’espressione di poesia, furono un’esplosione di giustificata collera: “Lu tirloci ti la chiazza” in cui, tra molto altro e con tono altamente provocatorio campeggiava un rabbioso perentorio invito a demolire [figuriamoci un po’, addirittura!] anche ‘la Torre dell’orologio’…» [Nicola Vacca in “Brindisi ignorata” Edit. Vecchi, Trani 1954].
Papa Ustinu, rivolgendosi all’appaltatore Pietro Iaccarini lo invitava: “Chianu chianu e doci doci, pi no ffarli tanto mali, mena an terra lu Tirlogi”. Non sapeva d’essere buon profeta; il 13 febbraio 1956 si sarebbe infatti avviata la scellerata demolizione della torre nel contesto dei lavori relativi alla costruzione del palazzo sede dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale.
Fu papa Ustinu, come del resto lo mostrava anche il suo fisico, una buona forchetta e all’alimentazione fece frequente riferimento con le sue poesie: «…in una ricorda e chiede, rivolgendosi al sindaco di Sandonaci, un intingolo; in un’altra si rivolge ai cacciatori per allertarli sull’arrivo della selvaggina; in altre poesie indica il cibo adatto alle puerpere e durante l’estate indica quella che gli pare essere la migliore delle diete; ricorda anche il suo maiale che “Quandu rriva carnuvali, mi dispiaci cu llu cciu, ma ci trovu buenu priezzu, mi lu vendu e ffazza Diu”; in altre ancora è immancabile il riferimento alla gastronomia natalizia brindisina e, infine, su un punto appare risoluto, sul fatto cioè che i brindisini non possono e non debbono rinunciare mai alla loro dieta tradizionale “Simu tutti ti ‘na razza, cu sti cibi mmalitetti, e nnimici capitali di brascioli e di purpetti, a nnu’ tandi favi bianchi, pipi fritti, cozzaruti, to’ sardeddi pari pari, casu scantu, agghi rrustuti”…» [Giacomo Carito in “Appunti per una storia dell’alimentazione e della gastronomia in terra di Brindisi” Inner Wheel Italia, Brindisi 2012 ].
Il 21 febbraio 1902 con lui si spegneva il poeta dialettale brindisino per antonomasia, eguagliato – forse – da altri, ma certamente non superato.
A Brindisi al poeta Agostino Chimienti non è intitolata una via ed è una pecca cui si dovrebbe rimediare e, nel mentre, lo ricordiamo e omaggiamo, con una delle sue più emblematiche poesie: “La chjazza ti Brindisi”.