SCU, dopo trent’anni quasi tutti fuori: lo Stato giochi d’anticipo

Di Gianmarco Di Napoli per il numero 384 de Il7 Magazine
La lotta alla criminalità organizzata in provincia di Brindisi potrebbe entrare nel suo momento più delicato degli ultimi trent’anni e non solo perché sono tornati in libertà personaggi del calibro del mesagnese Giovanni Donatiello e del torrese Andrea Bruno, i quali del resto – sino a prova contraria – potrebbero essersi determinati a compiere un percorso di ravvedimento. Quanto perché il loro ritorno in libertà, insieme a quello di decine di altri affiliati alla Sacra corona unita che hanno scontato lunghe condanne non solo per mafia ma anche per omicidio, comporta un inedito rimescolamento – fuori dal carcere – tra chi è stato pioniere (o addirittura fondatore) della Sacra corona unita a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta e le nuove generazioni che gestiscono all’esterno le attività illegali. Una coabitazione tra chi ha venti/trent’anni di vita e chi quei venti/trent’anni se li è fatti di carcere.
Ma come mai personaggi che hanno insanguinato e seminato il terrore in provincia di Brindisi stanno tornando, uno alla volta, in libertà, nonostante pene pesantissime e in alcuni casi persino l’ergastolo? C’è una recente sentenza della Corte di Cassazione, che fa riferimento alla Corte Costituzionale, la quale di fatto disintegra il concetto dell’ergastolo come “fine pena mai”. In sostanza è davvero raro (il cosiddetto “ergastolo ostativo”) il caso in cui il detenuto passi il resto della vita in prigione.
L’asticella è in media posizionata sui trent’anni di carcere, ma anche al di sotto, se si è mantenuta una buona condotta e se nel frattempo non sono sopraggiunte altre condanne a vita.
Proprio a circa trent’anni addietro risalgono le principali condanne inflitte dalla Corte d’Assise e dal Tribunale di Brindisi a capi e killer protagonisti della stagione più sanguinaria della Sacra corona unita. A fare da canovaccio per l’attività giudiziaria le sentenze dei tre maxiprocessi che si svolsero in rapida sequenza e che di fatto decapitarono l’organizzazione. Fioccarono condanne per associazione mafiosa, estorsioni, attentati, traffico di droga. Parallelamente parte di quegli stessi imputati, o personaggi a loro legati, venivano processati e condannati in Corte d’assise per gli omicidi che avevano insanguinato la provincia di Brindisi nel tentativo (riuscito) dell’organizzazione di legittimare il proprio potere.
Ora, dopo trent’anni, chi in un modo e chi in un altro, ha finito o sta per finire di scontare la propria pena e in maniera legittima (secondo l’ordinamento giudiziario italiano che prevede la condanna come un percorso di riabilitazione e non come una punizione fine a se stessa) riassapora l’aria della libertà. Cosa può succedere adesso?
Gli scenari sono diversi, ma uno va escluso a priori. E cioé che la Sacra corona possa essere riorganizzata con le stesse dinamiche con cui si accreditò come “quarta mafia” a partire dalla fine degli anni Ottanta. Nonostante nascesse da una costola della ’ndrangheta di Rosarno, con tanto di battesimo del boss Umberto Bellocco detto “Assu i mazzi”, il fondatore Pino Rogoli, che di mestiere faceva il piastrellista, non scelse una struttura orizzontale come quella dei calabresi, ma optò per un sistema piramidale, in cima al quale c’era lui e subito sotto i suoi amici più fidati (tra questi anche Donatiello). L’organizzazione pescò a piene mani nelle squadre contrabbandieri fagocitando anche alcuni capi che accettarono di affiliarsi subito. Tra questi il boss del rione Paradiso, Franco Trane.
La forza di quella struttura era il carisma che Rogoli era riuscito a costruirsi, facendo sterminare tutti gli antagonisti della vecchia guardia affidandosi a spietati gruppi di fuoco.
La debolezza, quella che ne decretò il rapido declino, era che nessuno aveva previsto il rischio di collaboratori di giustizia i quali, con una struttura di quel tipo, erano nelle condizioni di indicare con precisione capi, luogotenenti, gregari e manovalanza. E così accadde.
Con la frammentazione avvenuta in quegli anni, determinata anche dal numero record di collaboratori di giustizia (perché la cosiddetta “omertà” dalle nostre parti per fortuna non è un fattore culturale ma solo una regola che viene sistematicamente infranta) la Sacra corona in quanto struttura unitaria ha ben poche possibilità di essere ricostituita. Anche perché al momento non sembra esserci un personaggio talmente carismatico da poterne assumere il controllo. E perché un progetto del genere dovrebbe necessariamente passare da un’altra sanguinaria guerra che in questo momento non conviene a nessuno.
E’ invece molto più probabile che il “brand” Sacra corona possa essere sfruttato dai clan che non hanno mai smesso di operare in provincia di Brindisi, con una spartizione territoriale che ricalca quella originaria dettata da Rogoli. Una riorganizzazione «orizzontale» che sarebbe più difficile da combattere in quanto – non essendoci un vertice e una struttura piramidale – sgominare un clan avrebbe pochi effetti destabilizzanti. Esattamente come avviene per le famiglie della ‘ndrangheta, unite da un patto di sangue eppure autonome.
Ma con l’uscita dal carcere di personaggi di primissimo piano, la cui immagine è stata consolidata dalla scelta di espiare la pena senza piegarsi al pentimento, determinerà comunque un momento di destabilizzazione sia interna (perché gli assetti inevitabilmente cambieranno) che verso l’esterno dove si tenterà di riaccreditare l’immagine di un’organizzazione che da tempo non è più lo spauracchio del passato.
E anche in questo caso c’è il rischio di azioni eclatanti, di un tentativo di ristabilire quel sistema di terrore ridimensionato grazie al successo, trent’anni fa, dello Stato, in tutte le sue declinazioni.
I primi sussulti ci sono stati, nelle ultime settimane, a San Pietro Vernotico. Perché a fronte di equilibri interni destinati fatalmente a essere condizionati dalle scarcerazioni, ci può essere un tentativo di chi stava fuori di mostrare i propri muscoli o semplicemente di cercare di accreditarsi nei confronti dei boss che stanno uscendo.
A differenza di trent’anni fa c’è un ufficio, la Direzione distrettuale antimafia di Lecce, che si occupa principalmente proprio di quella che è la nuova criminalità organizzata salentina (all’epoca era un’incombenza della procura ordinaria), anche la Dia ha ormai una struttura consolidata. Ma ci sono due punti deboli: il primo è che mentre il passato si riaffaccia sul piano criminale con molti dei personaggi dell’epoca, tra le forze dell’ordine quasi tutti quelli che avevano operato in quel periodo, sono andati in pensione o trasferiti in altri luoghi. E mentre il patrimonio genetico dei criminali resta insito nel loro dna e viene trasferito con cura, la memoria storica degli investigatori che hanno combattuto la mafia si disperde. Chi è venuto dopo può certo ricostruire personaggi ed eventi consultando i fascicoli, ma senza il contributo essenziale della conoscenza diretta.
Il secondo punto debole è rappresentato dal fatto che la struttura investigativa in provincia di Brindisi è rimasta esattamente quella di trent’anni addietro, con due commissariati di polizia, tre compagnie dei carabinieri e le stazione dell’Arma dei comuni più piccoli (tra cui quelli che restano a maggiore presenza criminale) che chiudono alle 16 o al massimo alle 18, lasciando di fatto spazio libero alla malavita.
Trent’anni fa la creazione del commissariato di Mesagne e della compagnia carabinieri di San Vito ebbero un ruolo determinante nella vittoria sulla mafia locale. Ma oggi appaiono insufficienti a fronteggiare una possibile nuova emergenza. Si è parlato più volte della necessità di creare un commissariato di polizia a San Pietro Vernotico perché la zona sud della provincia di Brindisi, anche sulla base delle ultime inchieste della Dda di Lecce, è quella in cui il fuoco non è più solo latente sotto la cenere. Rispetto al passato San Pietro non è solo legata a doppia mandata a Tuturano, ma ormai può essere considerata una succursale della storica malavita mesagnese che in queste zone può muoversi più liberamente. E’ dunque fondamentale accelerare i tempi per non dover rincorrere: quello del commissariato di polizia a San Pietro è un passo cruciale, così come lo è lo straordinario lavoro compiuto dal commissariato di Mesagne e dal suo dirigente Giuseppe Massaro, la cui presenza è percepibile quotidianamente per strada. Una presenza visibile di uno Stato che qui non intende cedere neanche un metro.
In una situazione estremamente preoccupante c’è un elemento che rassicura. Il caso ha voluto (complice l’organizzazione del G7) che alla guida della prefettura di Brindisi venisse destinato non solo un ex super poliziotto, ma uno che 25 anni fa è stato in prima linea (come capo della Squadra mobile) proprio nella lotta alla criminalità organizzata brindisina. La presenza di Luigi Carnevale in questo momento così delicato è fondamentale, da un lato per la sua capacità di rendersi conto esattamente di ciò che sta avvenendo, e che potrebbe avvenire, fornendo un contributo determinante di coordinamento anche alle forze di polizia. Dall’altro il prefetto è un punto di riferimento credibile per i sindaci di quei comuni, anche quelli più piccoli, che si trovano a gestire situazioni al limite del coprifuoco serale e che hanno bisogno di una guida carismatica e preparata per muoversi con oculatezza e in maniera efficace, superando quel momento di comprensibile disorientamento che potrebbero trovarsi ad affrontare.
Non è il caso di fare catastrofismo: la situazione non è ancora di emergenza e si spera non lo diventi mai. Ma non va sottovalutata, per colpire eventuali rigurgiti di mafia sul nascere o comunque dotarsi per tempo degli strumenti per poterla affrontare in una posizione di vantaggio.
La storia, anche quella criminale, è ciclica. Ma la storia ci ha anche insegnato che lo Stato, almeno da queste parti, è più forte della malavita.