Sorelle Capone, le storiche magliaie brindisine

di Giovanni Membola per il7 Magazine

Un mestiere cresciuto con loro, tra rocchetti e gomitoli colorati. Netta e Mimina Capone sono donne di altri tempi, hanno dedicato una vita al cucito e alla maglieria, lavorando con onestà e disciplina, senza mai risparmiarsi. Abbiamo avuto l’onore di incontrarle e il piacere di ascoltare le storie della loro vita, una interessante testimonianza accompagnata da modi garbati e dalla forza del loro sorriso.
Antonia Capone, per tutti Netta, era la quarta genita di sei figli, cinque femmine e un solo maschio (Turicchio, diminutivo di Salvatore), è cresciuta praticamente con la zia, com’era tanto in uso a quei tempi: le famiglie numerose spesso davano, in una sorta di affido, uno o più figli ai parenti più stretti senza prole. Con lei ha imparato l’arte del rammendo, del cucito e a lavorare la lana. Durante il secondo conflitto mondiale l’intera famiglia fu costretta a sfollare a Latiano, “nei primi tempi la guerra non si sentiva tanto, si soffriva soprattutto per il razionamento degli alimenti – ricorda – si utilizzava esclusivamente la ‘carta annonaria’, anche se c’era anche tanto contrabbando. Tutto cambiò con le incursioni aeree e i bombardamenti degli alleati, a quel punto fummo costretti anche noi a trasferirci in provincia, dove abbiamo vissuto per cinque lunghi anni”.

Affianco a zia Maria imparò il mestiere di magliaia che ha perfezionato con l’esperienza di tutta una vita. In casa conserva l’antica macchina manuale per maglieria acquistata alla fine degli anni Quaranta, perfettamente funzionante, con cui ha realizzato centinaia di capi unici e raffinati, che hanno tenuto al caldo, in un confortevole abbraccio, numerose famiglie brindisine. “A quell’epoca dovevamo tutti contribuire all’economia famigliare – ci racconta Netta, un vero fiume in piena di vera passione – noi sorelle avevamo imparato a rammendare ogni cosa, non si buttava mai nulla, tutto veniva riparato e riutilizzato: dai calzini agli abiti, che dovevano durare tanti anni, perciò venivano accorciati, allungati, rinforzati, a volte addirittura rivoltati, per sfruttare il dritto e rovescio della stoffa. In questo modo si adeguava la misura così ogni capo passava da un fratello più grande a quello più piccolo, o anche da un parente all’altro”.
“Al rammendo era espertissima nostra sorella Tina – le fa eco Cosima, da sempre Mimina – io ero la più piccola e aiutavo Netta nel suo lavoro, il mio compito era quello di ‘nturtigghiari la lana con un apposito arcolaio”, e mentre racconta ci mostra praticamente come procedeva, con maestria e rapidità, utilizzando quel semplice ma sempre funzionante strumento utilizzato per dipanare le matasse del filato, prima di lavorarlo a macchina. “Ada, nostra sorella maggiore, era particolarmente brava nell’armeggiare con i ferri. Faceva anche la ‘mestra’, ossia aiutava i ragazzi del vicinato nel doposcuola e accudiva quelli più piccoli quando ancora gli asili non erano diffusi. Anche Sofia, l’altra sorella, era molto apprezzata come sarta, oltretutto aveva una voce bellissima, si è esibita come soprano in alcuni concerti, sino a quando nostro padre Teodoro lo ha permesso. Poi ha cantato solo in chiesa, insieme con Ada hanno fatto parte da sempre del coro della parrocchia di Santa Lucia”.

Nel loro racconto, ricco di interessanti dettagli, non mancano i ricordi dell’adolescenza, quando in casa si riunivano con le coetanee del vicinato a intrecciare lana e a cucire, sedute ore e ore a narrare “cunti e culacchi”. I laboratori sartoriali si allestivano nelle camere o nelle cucine di un tempo, dove il “banco da lavoro” altro non era che il tavolo liberato dalla tovaglia intorno al quale si sedevano a esercitare l’arte, con pazienza e scrupolosità. Era l’occasione per apprendere le tecniche e l’abilità manuale da chi ci sapeva fare.
“Eravamo giovani, avevamo tanta voglia di divertirci – ricorda ancora Mimina – ma non si poteva uscire; pertanto, con le amiche alcune volte ci chiudevamo in casa e si ballava, tra noi, con una radio prestata o con la musica dell’unico disco disponibile”.
“Con l’armistizio arrivarono gli americani, i militari che passavano da vicino casa nostra (via A. Della Monica, nel cuore del centro cittadino) ci sorridevano e ci portavano tanta cioccolata, dicevano che le ricordavamo le loro figlie lontane. Ci lasciavano anche il burro e del latte in polvere, con quest’ultimo facevamo il pane in casa. Al posto dell’orzo si iniziava a riciclare i fondi di caffè, utilizzando una seconda volta la polvere che un nostro zio riusciva ad avere dai marinai della Difesa”.

Richiamano alla mente i ricordi legati ai tanti sacrifici vissuti durante il periodo bellico, in quella casa di Latiano priva di pavimento sul quale si spargeva regolarmente la calce in polvere per disinfettare. Poi l’adolescenza, quando solo la domenica era permesso fare una rapida passeggiata al corso, dopo la messa. “Potevamo andare con le amiche, in gruppetto, sul tragitto da Piazza Cairoli ai Giardinetti da percorrere massimo due volte, poi dovevamo rientrare a casa prima del buio, altrimenti erano guai. Era l’occasione per scambiare solo qualche sguardo con i ragazzi fermi sull’altro marciapiede, ma nulla più era permesso.”
Netta ha conosciuto suo marito Ernesto De Leo quando aveva appena diciassette anni, un’età ritenuta adatta per prendere marito. “Fu un amore a prima vista – conferma – dopo sposati mi ha sempre aiutato nel mio lavoro, era un bravo meccanico (lavorava alla Saca) perciò abile nel riparare e ritoccare alcune parti delle macchine da maglieria. È sempre stato al mio fianco, si era appassionato a quest’arte tanto da imparare ad utilizzarle. Spesso si metteva perfino a produrre dei capi in lana, tessuti senza interruzioni da cima a fondo”. Durante l’appassionate racconto, Netta ci mostra con fierezza la sua antica macchina, simula i vari passaggi, portando avanti e dietro la manovella che aziona il carrello, come a far scorrere i filati sui numerosi aghi, preimpostati in funzione del tipo di lavorazione da ottenere. “Ormai è ferma da qualche anno, non ho più la forza di una volta” dice, come a giustificarsi. È stata sempre apprezzata per la sua dedizione e precisione nel produrre indumenti di ogni tipo, c’è ancora gente che continua a chiedere di lei, se può ancora aggiustare qualche vestito. “Nonostante l’età (novantadue anni portati benissimo, ndr) e le mani non più ferme come una volta, riesco comunque a cucire qualcosa per i miei figli, soprattutto a fare delle riparazioni, piccole cose che mi tengono impegnata durante il giorno”.

Nella sua casa ci sono ancora tante spolette, ferri del mestiere e macchinari, un mix di colori che rappresentano la condivisione dell’eccellenza trasferita di mano in mano, una lunga esperienza nel creare ogni genere di capo: soprabiti, maglioni, vestitini per neonati, gonne e abiti nel tipico stile dell’epoca, semplici, economici e casti, ma non per questo meno belli e raffinati. “Realizzavo anche costumi da bagno, sempre in lana, mi ispiravo guardando alcuni modelli esposti nelle vetrine della città e poi li realizzavo a macchina, a ‘piegolini rilevati’, così da non essere trasparenti”. Alcuni clienti portavano con loro la lana già acquistata, “altri sui affidavano a noi anche per la scelta della materia prima, era tutta merce di prima qualità, che durava negli anni. In certe occasioni era necessario lavorare tutta la notte per consegnare le ordinazioni, in particolare in occasione delle principali festività, o per il Giorno dei Morti e per l’Epifania”.

Netta vive tranquillamente la sua quarta giovinezza, circondata dalle attenzioni e dall’affetto dei figli. Quasi ogni giorno riceve la visita della sorella Mimina, sempre attiva e disponibile, piena di una straordinaria vitalità a dispetto delle oltre ottanta primavere vissute. La loro è una eccezionale testimonianza dei valori della vita e del lavoro, un viaggio nel tempo fatto anche di saggezza e impegno sociale, un grande insegnamento che noi tutti non potremo mai apprendere sui libri o in tv.