Viaggio nelle nostre ville comunali: Ostuni

di Alessandro Caiulo

Guardandola con gli occhi del visitatore e non con quelli distratti e frettolosi del passante, desta non poche sorprese: la Villa Comunale di Ostuni, è oggi intitolata a Sandro Pertini, settimo Presidente della Repubblica, in carica dal 1978 al 1985, un tempo a Umberto I, secondo Re di Italia, in carica esattamente da un secolo prima, dal 1878 al 1900.
Munirsi di un giardino o di un parco comunale, a disposizione di tutti i cittadini, è stato un vezzo molto diffuso dalle nostre parti a cavallo fra il XIX ed il XX secolo quando l’evolversi di una ricca borghesia, dedita principalmente al commercio e all’esportazione di generi agricoli, fece sorgere la necessità di espandere i vecchi borghi, e le famiglie più ricche cominciarono quasi a fare a gara a chi avesse il palazzo più bello, grande e ricercato. Palazzotti che, a differenza delle antiche ville di una aristocrazia un po’ con la puzza sotto il naso, non sorgevano in amene campagne circondate da boschi naturali o grandi parchi privati dove non era consentito al volgo nemmeno di affacciarsi, ma erano volutamente costruite a ridosso del centro abitato, per essere il più possibili vicini al centro dei propri affari anche perché il mostrarsi in giro ed avere contatto continuo con gli altri era un modo di incrementare rapporti commerciali ed affari.

Il monumento ai Caduti della Grande Guerra

Il verde era affidato, pertanto, alla mano pubblica ed i sindaci e podestà dei vari paesi, a loro volta, facevano a gara per ingentilire il più possibile le loro cittadine munendole di ville pubbliche che fossero belle, con essenze arboree rare e tropicali, fontane zampillanti di fresca acqua e busti e monumenti dedicati, preferibilmente, agli eroi locali e a chi aveva fatto la storia della città.
Giocoforza e ben presto questi luoghi diventarono i principali centri di aggregazione sociale ed erano frequentati da gente di tutte le età e censi.
In particolare, la realizzazione della Villa Comunale di Ostuni comportò una vera e propria opera di risanamento e bonifica compiuta all’inizio del secolo scorso in una zona attorno alla quale la Città Bianca si era già espansa e che i signorotti che avevano edificato i loro sontuosi palazzotti in quei pressi consideravano un vero bubbone.
Lo slargo su cui ci si affacciava veniva chiamato la Foggia e non certo in onore del capoluogo dauno, ma per evidenziare l’esistenza di una vera e propria fogna (fossa) a cielo aperto, dove chiunque scaricava qualunque cosa, che aveva trasformato una depressione naturale in cui venivano raccolte le acque piovane che fino a un centinaio di anni prima era la principale fonte di rifornimento di acqua per la popolazione ostunese, in un invaso di acqua stagnante ricolma di rifiuti maleodoranti dove sovrabbondavano zanzare, pappataci e, inevitabilmente, anche ratti grossi come gatti che ne avevano fatto la base logistica per le scorribande da compiere per le vie cittadine.
Le opere di bonifica e di sistemazione delle aiuole iniziarono alla vigilia della Grande Guerra e nel 1916 era a buon punto anche la piantumazione degli alberi, tant’è che si ritenne di poter intitolare questa grande piazza, finalmente dignitosa, a Re Umberto I. Il colmamento della voragine fu completato solamente una dozzina di anni dopo grazie ad un’ordinanza che disponeva che tutte le macerie rivenienti dalle demolizioni fossero utilizzate a questo scopo e si invogliarono i carrettieri a mettere a disposizione a questo scopo i loro mezzi di trasporto a trazione animale, in cambio dell’esenzione dal pagamento di alcune tasse (l’equivalente del bollo auto che, all’epoca, gravava, come tassa comunale, anche sui carretti). Il 6 novembre 1927 fu inaugurato, appena fuori la recinzione della piazza, attorno alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie, il Parco della Rimembranza – i cui trecento alberi rappresentavano la memoria degli altrettanti soldati ostunesi morti in guerra – mentre il 28 ottobre 1930 , per uno strano scherzo del destino esattamente lo stesso giorno in cui, 93 anni dopo, è stata oggetto della mia visita, fu inaugurata anche la Villa Comunale Umberto I.

Uno degli ingressi della villa comunale di Ostuni

Approfitto della passeggiata ad Ostuni per fare un salto in un’altra chiesa, posta anche essa a poche decine di metri dalla Villa, quella della SS.Annunziata, il cui nuovo parroco è don Giovanni Prete, fino due mesi fa al Santuario di Santa Maria del Casale, per poter ammirare dal vivo un capolavoro, risalente al 1574, di cui molti ignorano l’esistenza ma che rappresenta una delle più prestigiose opere cinquecentesche presenti in Puglia: la pala del “Cristo deposto dalla croce” di Paolo Caliari, universalmente noto come il “Veronese”. La presenza di questa tela a mille chilometri di distanza dall’area in cui questo artista operava non deve stupire in quanto fu appositamente commissionata, proprio per essere donata al Convento degli Osservanti Riformati, dal nobile di origine venete Andrea Alberici (o Albrizio, come riportato in alcune cronache), il quale gestiva il traffico del preziosissimo olio di oliva per conto della Serenissima Repubblica di Venezia di cui era viceconsole, come segno di riconoscenza per aver ottenuto dai monaci la possibilità di seppellire i suoi cari, come era d’uso nel cinquecento, all’interno dell’edificio sacro. La tela fu trafugata, ad opera di ignoti, alla metà degli anni settanta e fu ritrovata, un paio di anni dopo, nascosta in un casolare abbandonato in località Punta Penne, sulla costa brindisina, pronta per essere imbarcata clandestinamente, destinata, con ogni probabilità, a qualche mercante d’arte che trafficava col Medio Oriente. Secoli prima, vi fu un altro tentativo di portare via la preziosa tela per farne dono, così pare, al Re di Napoli, ma, saputa la cosa, i frati ne fecero frettolosamente dipingere una grossolana copia al loro confratello, fra Giacomo da San Vito, sostituendola all’originale. Il trucchetto funzionò e fu la copia ad essere prelevata e portata via.
L’opera del Veronese non è l’unica sorpresa che questa chiesa – che dal grigiore esterno, in parte celato dagli alberi di quercia, non lascia trasparire la sua magnificenza – riserva: un quattrocentesco affresco con le scene della vita di san Giovanni Battista, venuto alla luce integro a seguito dello spostamento di una tela seicentesca, un suggestivo gruppo di antiche statue lignee denominato il “Calvario Francescano” posizionate in una nicchia il cui soffitto è finemente affrescato, medaglioni con scene sacre, realizzate da artisti locali, poste sia in sacrestia che ai lati dell’altare maggiore, sopra al quale fa bella mostra di se l’Annunciazione di quello stesso frà Giacomo, autore del falso sopra descritto; notevole è anche il tabernacolo ligneo, finemente intarsiato e decorato.
Prometto a don Giovanni di tornare in altra occasione per una visita più accurata e per partecipare alla Santa Messa domenicale e mi dirigo verso la Villa Pertini, accedendo alla stessa attraverso uno dei suoi tre ingressi, quello del bar-caffetteria che, doveva essere, originariamente, una struttura in stile liberty, poi sostituita con un manufatto decisamente più moderno e funzionale. Appena imboccato il viale noto una squadra di laboriosi giardinieri che ha appena potato in maniera drastica il pezzo forte del giardino botanico: un esemplare secolare di Fitolacca (Phytolacca dioica), detto anche albero della lacca, per il potere altamente colorante dei suoi frutti, una pianta sudamericana, detta anche l’albero dei pellegrini in quanto sulla sua larga base possono riposarsi all’ombra un gran numero di perone, che fu importata in Italia in un numero limitato di esemplari a cavallo fra i due secoli scorsi, per abbellire parchi e ville e che ad Ostuni si è perfettamente acclimatata, come dimostrano i suoi quasi quindici metri di altezza. Notevoli anche alcuni alberi “mangiafumo” (Beucarnea recurvata) vecchi di almeno cento anni, così chiamati per la capacità naturale di purificare l’aria. Secondo uno studio condotto dalla NASA questa pianta è in grado di rimuovere una serie di inquinanti dall’aria, tra cui il benzene, il formaldeide e il tricloroetilene: magari ne piantassero qualche migliaio di esemplari anche a Brindisi! Tralasciando di descrivere le circa trenta varietà di essenze arboree locali presenti in villa, molte sono anche le specie tropicali: dalle palme (Phoenix canarienis e Washingtonia sia filifera che robusta) ai maestosi esemplari di Pino del Paranà (Araucaria araucana) e Cedro (Cedrus atlantica). Fino a pochi anni fa vi era anche una Sequoia californiana (Sequoia sempervirens), una vera rarità per le nostre latitudini, che fu distrutta dal fuoco appiccato da chissà quale balordo che spero, sinceramente, che nel compiere l’insano gesto si sia ustionato quanto meno le mani.

L’interno della antica bottega delle Ceramiche D’Alò

Al centro vi è una grande fontana e, poco a lato, una statua raffigurante una prosperosa lavandaia, a memoria dell’invaso di acqua dove ci si recava anche per lavare i panni. Nella zona dei giochi per bambini vi è il busto ad imperitura memoria di Antonio Antelmi, un giovane ufficiale dei bersaglieri morto per la Patria nel corso del primo conflitto mondiale. E questo eroe di guerra ci introduce perfettamente alla tappa successiva, appena fuori la villa, dove svetta l’alta colonna, espressamente ispirata alla colonna terminale della via Appia di Brindisi, sormontata da un’aquila: è il monumento in memoria dei trecento soldati ostunesi morti durante la Grande Guerra, quelli stessi in ricordo di ognuno dei quali fu piantato, un albero di Pino di cui, oggi, ne rimangono appena una dozzina.
Fino a pochi anni addietro, nei pressi del Monumento ai Caduti, vi era, in un grande locale ricavato all’interno di una grotta naturale, la bottega delle Ceramiche D’Alò, attiva dal 1870. Giunto sul posto, dopo un primo momento di smarrimento e delusione, mentre mi guardavo attorno nel caso in cui fossi io a non ricordare precisamente il luogo, chiedendo in giro vengo a sapere, con un certo sollievo, che la bottega esiste ancora ma si è spostata di alcuni metri nella strada che sbuca in piazza della Libertà, quella sormontata dalla guglia di Sant’Oronzo, una sorta di obelisco in stile barocco alto venti metri con in cima la statua del santo vescovo: tale monumento fu eretto dagli ostunesi per riconoscenza verso il Patrono per essere stati preservati dalla peste.
Quella dei D’Alò è un’attività commerciale in piedi da 153 anni, da quando il bisnonno Vincenzo, un ceramista di Grottaglie che già frequentava Ostuni per vendere i suoi prodotti nelle fiere e nei mercati domenicali, visto il successo della sua mercanzia – craste (vasi per piante e fiori), cantri (tazze da cesso non collegate alla rete fognaria), mbili (recipienti per l’acqua), capasoni (giare smaltate adibite alla conservazione di alimenti), piatti e altro ancora – e stanco dei massacranti spostamenti notturni (una trentina di chilometri col carretto carico di merce) per essere in piazza fin dalle prime ore della domenica, decise di compiere il gran passo e trasferirsi, armi e bagagli e con tutta la famiglia nella Città Bianca, aprendo il laboratorio/bottega, un vecchio frantoio ipogeo che si affacciava sulla “chiazza de li cotime” che, tradotto in italiano, significa proprio piazza delle ceramiche, l’attuale piazza Matteotti. All’epoca non esisteva la Villa Comunale e “La Foggia” era ancora quella sorta di cloaca a cielo aperto sopra descritta e fiere e mercati si tenevano in questa zona non del tutto urbanizzata, a quattro passi dal borgo antico.

La tela della Deposizione di Veronese

Fu la prima attività di questo genere ad Ostuni e, tramandata di generazione in generazione, è giunta fino ai nostri giorni ed è gestita – assieme alla consorte, a cui attribuisce la gran parte del merito per la prosecuzione dell’attività – da un pronipote di Vincenzo D’Alò, il quale mi parla fiero delle sue origini e di quello che la sua famiglia ha rappresentato in questa laboriosa città; si dice orgoglioso che tutti i prodotti in vendita sono frutto delle mani di bravi ed ingegnosi artigiani locali che utilizzano ancora le antiche tecniche di lavorazione, come è dimostrato dalla merce esposta che riproduce fedelmente, nelle linee e nei colori gli oggetti tradizionali, un tempo di uso comune, come stoviglie, tegami, pignatte, ora divenuti ricercati complementi di arredo. Personalmente mi sono fermato ad ammirare, con lo stesso stupore di quando, ancora bambino, vi entrai per la prima volta mezzo secolo addietro, i pupi per il presepe ed i famosi fischietti di terracotta di tutte le forme, anche se quello che riscuoteva più successo era il classico carabiniere sull’attenti con il fischietto nel…di dietro. Erano gli anni in cui ad Ostuni teneva banco la mostra/mercato del fischietto in terracotta – come ricorda con nostalgia il sig. D’Alò – tradizione oggi rimasta appannaggio della sola città di Rutigliano, dove vi è anche un museo stabile dedicato a questi piccoli e colorati manufatti artigianali.
Certamente ai tempi del bisnonno, del nonno ed in parte anche del padre, Ostuni non era una città turistica di gran richiamo come lo è oggi, ma il turismo di massa, quello, per intenderci, un pò caciarone di luglio e agosto, non è tanto attratto da questi prodotti artistici quanto lo è, invece, il turismo destagionalizzato, più lento, meno numeroso e rumoroso, ma certamente più di qualità e più avvezzo a spendere, che visita la Città Bianca negli altri periodi dell’anno, sicuramente più in grado di distinguere ed apprezzare un prodotto artigianale di qualità creato con i sani sensi, attratto più da chiese, opere d’arte e da passeggiate nelle suggestive viuzze del centro storico, che dalla movida.
Saluto il sig. D’Alò, con la promessa di tornare a trovarlo, con calma, come cliente sotto Natale e, in pochi minuti, costeggiata la recinzione della frequentatissima Villa Comunale, sono di nuovo nei pressi della Chiesa della SS.Annunziata per riprendere l’auto e fare ritorno a casa, col mio bel carico di ricordi.