Benedetto Brin, a 100 anni dalla tragedia l’occasione per restituire dignità all’area tombale nel cimitero

di Gianfranco Perri

 In questo 2015 ricorrerà il centenario della tragedia brindisina della nave corazzata Benedetto Brin: sarà il 27 settembre alle ore 8 e 10 minuti del mattino quando si compiranno cento anni esatti dall’esplosione della santabarbara della nave che si trovava alla fonda nel porto medio in prossimità della spiaggia Fontanelle, adiacente a Marimisti, di fronte alla costa Guacina. La nave s’incendiò e s’inabissò portando con sé in fondo al mare 456 marinai, in sostanza la metà dell`intero equipaggio di 943 uomini che in quel lunedì mattina erano imbarcati, e tra i tantissimi caduti il comandante della nave, il capitano Gino Fara Forni e anche il comandante della 3ª Divisione Navale della 2ª Squadra, il contrammiraglio Ernesto Rubin de Cervin.

Un boato tremendo squarciò l’aria e il rombo di un’esplosione si ripercosse lontano sul mare e sulla città, le navi ancorate ebbero un sussulto e le case tremarono. La nave non si vedeva più e al suo posto una colonna alta oltre cento metri di fumo giallo, rossastro, misto a gas e vapori s’innalzava al cielo. La catastrofe apparve in tutta la sua orrenda grandiosità alcuni momenti dopo, quando la colonna di fumo lentamente si diradò.

 

L’affondamento della Benedetto Brin nel Porto di Brindisi il 27 settembre 1915

Ecco qui una parte di quello che raccontò l’ufficiale Fausto Leva, testimone della tragedia: «Nel fumo denso si distinse per un momento la massa d’acciaio della torre poppiera dei cannoni da 305 mm, che lanciata in aria dalla forza dell’esplosione fino a metà della colonna, ricadde poi violentemente in mare, sul fianco sinistro della nave. Pochi momenti dopo, dissipato il nembo del fumo, lo scafo della Benedetto Brin fu veduto appoggiare senza sbandamento sul fondo di dieci metri e scendere ancora lentamente, formandosi un letto nel fango molle. Mentre la prora poco danneggiata si nascondeva sotto l’acqua che arrivava a lambire i cannoni da 152 della batteria, la parte poppiera completamente sommersa appariva sconvolta e ridotta a un ammasso di rottami. Caduto il fumaiolo e l’albero di poppa, si ergeva ancora dritto e verticale l’albero di trinchetto» [estratto da “La base navale di Brindisi durante la grande guerra” di Teodoro G. Andriani, 1993].

Fatalità volle che nel quadrato di poppa il contrammiraglio Rubin a quell’ora teneva a rapporto gli ufficiali, per cui la maggior parte di loro saltò in aria tra l’ammasso informe dei rottami sconnessi e roventi: mai si ritrovò neppure la salma del contrammiraglio.

Esemplare fu il comportamento dell’equipaggio superstite della corazzata. Questo riferisce il comandante del cacciatorpediniere francese Borèe che stava uscendo in mare aperto e che transitava in quel momento a qualche centinaio di metri dall’esplosione: «Una grande parte dell’equipaggio superstite della Brin, subito dopo l’esplosione si era raccolta sulla prua in perfetto ordine e non si udiva tra quegli uomini né un grido né un appello. Non ho visto un solo marinaio gettarsi in acqua prima che sia stato dato l’ordine di abbandonare la nave: una condotta veramente ammirevole» [estratto da “Brindisi durante la prima guerra mondiale” di Teodoro G. Andriani, 1977].

Lo sbarco avvenne qualche minuto dopo in tutto ordine. Numerosi rimorchiatori e imbarcazioni delle tante navi italiane e francesi presenti nel porto raccolsero i superstiti e li portarono nelle loro infermerie.

La corazzata Benedetto Brin, lunga 138 metri e larga 23 metri, pescava 8 metri, aveva una stazza di 14000 tonnellate ed era dotata di 46 cannoni 2 mitragliere e 4 lanciasiluri. La sua costruzione iniziò nel 1899 e fu varata nel 1901 a Castellammare di Stabia.

Fu consegnata alla Regia Marina nel 1905, ricevendo la bandiera di combattimento il 1º aprile 1906. Durante la guerra italo-turca aveva partecipato allo sbarco a Tripoli il 2 ottobre del 1911.

 

Il varo della Benedetto Brin a Castellammare di Stabia nel 1901

La corazzata era stata intitolata a Benedetto Brin, un militare di mare nato a Torino nel 1833, che fu generale del genio navale, economista e uomo politico. Fu il rinnovatore della Marina Militare Italiana e fu creatore delle prime grandi corazzate moderne e progettista dei primi incrociatori da battaglia. Fu ministro della Marina per circa dieci anni, e fu anche ministro degli Esteri. Promosse lo sviluppo dell’industria navalmeccanica italiana e nel 1878, istituì a Livorno l’Accademia Navale.

Immediatamente dopo lo scoppio, le autorità militari avanzarono l’ipotesi dell’attentato ad opera dei nemici di guerra austriaci, ma poco a poco cominciò a prendere corpo anche la più verosimile possibilità di un’autocombustione avvenuta nella grande stiva adibita a deposito di munizioni: il calore della sala motori, vicina al locale della santabarbara, avrebbe innescato l’incendio che a sua volta avrebbe fatto scoppiare le munizioni. Mai fu data una risposta definitiva… e ormai, certamente non importa troppo sapere l’esatta verità, né certamente mai importò troppo saperla a quei 456 marinai.

D’altra parte non è tra i propositi di quest’articolo, il proporre una ricostruzione storica di quel tragico episodio accaduto a Brindisi cent’anni fa, né tanto meno l’approfondire il dibattito, mai chiuso, sulle cause e sulle responsabilità di quel luttuoso evento, così grave e impattante da giungere a coinvolgere l’intera città con tutti i suoi cittadini. Già altri, e con maggior cognizione di causa della mia, si sono da anni dedicati con più o meno successo a entrambi obiettivi [raccomando agli interessati la lettura di quanto contenuto a tale proposito su “Memorie brindisine” di Antonio M. Caputo, 2004].

 

La Benedetto Brin in navigazione

Invece, prendendo spunto proprio dallo scritto del professor Caputo, mi piace qui ricordare come Brindisi partecipò al luttuoso evento con tutta se stessa, e con la generosità che in certe occasioni è sempre capace di dare. Il sindaco, Giuseppe Simone, indisse tre giorni di lutto cittadino e il consiglio comunale, il 24 giugno 1916, deliberò di intitolare alla “Benedetto Brin” e ai suoi caduti la strada del rione Casale, che ancora oggi collega l’ex collegio navale allo stadio comunale e quindi all’aeroporto militare.

Sulla banchina del porto si raccolse una folla enorme che assistette in angoscioso silenzio a quel crudele spettacolo del recupero dei corpi dilaniati e dei superstiti feriti che furono ricoverati nell’ospedale della Croce Rossa e nell’Albergo Internazionale, subito adibito a infermeria d’emergenza e che, per l’occasione, funse da efficiente ospedale militare.

Numerose testimonianze di cittadini che quel tragico lunedì si riversarono riverenti sulle vie del porto, descrissero le operazioni di salvataggio, che proseguirono durante l’intero giorno e per tutta la notte, con lo spettacolo sconvolgente dei corpi martoriati e delle orribili ferite dei superstiti.

A Brindisi affluirono molti dei parenti dei militari protagonisti della tragedia, con la disperazione per la perdita improvvisa dei loro congiunti che fu immensamente accresciuta per quelle tante famiglie che si resero conto che mai avrebbero potuto piangere e pregare sulla tomba dei loro cari: le vittime infatti, in maggior parte risultarono ufficialmente scomparse perché i loro corpi dilaniati furono impossibili da  riconoscere.

Il popolo brindisino si strinse attorno alla Marina Militare in una gara generosa di solidarietà e di abnegazione, accogliendo con slancio e comprensione la folla dei familiari accorsi da ogni parte d’Italia per dare sepoltura alle martoriate salme dei caduti.

I funerali delle prime salme recuperate ebbero luogo il giorno successivo allo scoppio, tra due fitte ali di popolo riverente, e per le altre proseguirono anche nei giorni seguenti. Tutte le spoglie dei marinai che non poterono essere consegnate alle famiglie furono seppellite in un’area del cimitero cittadino messa a disposizione dal comune e specialmente adibita.

 

Area tombale dei marinai della Benedetto Brin nel cimitero di Brindisi

Rettore della chiesa Madonna di Loreto del cimitero, era a quel tempo il grande filantropo brindisino, canonico Pasquale Camassa -Papa Pascalinu- che era anche cappellano militare e che pertanto visse quella dolorosa esperienza come pochi altri. Egli infatti adempì il seppellimento di tanti di quei marinai sfortunati e assistette al dolore dei familiari dei caduti che anche durante gli anni successivi alla tragedia si recarono in pellegrinaggio a Brindisi per visitare le tombe.

Inoltre, perché di quel funesto disastro potesse conservarsi perenne memoria, Papa Pascalinu si premurò personalmente di raccogliere e far sistemare nel Museo Civico della città alcuni avanzi di quella nave fatale, così come lo volle lui stesso testimoniare con ogni dettaglio in un numero del suo giornaletto “Il prossimo tuo” che uscì nel 1917.

Le spoglie mortali di quei tanti marinai giacquero nel cimitero comunale di Brindisi per tantissimo tempo, fino a pochi anni fa, quando furono traslate al cimitero militare di Bari, mentre in quello stesso settore del nostro cimitero furono sepolti anche molti militari, quasi tutti marinai, morti in combattimento durante la seconda guerra mondiale.

In quell’area del nostro cimitero comunale però, che per tutti noi brindisini resta indissolubilmente legata al ricordo di quell’immane tragedia cittadina, si erge tuttora il suggestivo monumento funereo che fu eretto a ricordo di quel funesto 27 settembre di 100 anni fa, e ci sono inoltre, allineate lungo il Viale Eroi del Mare che delimita il settore, le trenta targhe marmoree che portano incisi in ordine alfabetico i nomi di quei 456 sfortunati marinai italiani.

 

Monumento funereo della tragedia della Benedetto Brin nel cimitero di Brindisi

 

Le targhe con i nomi dei 456 marinai morti nello scoppio della Benedetto Brin

E a proposito del nostro cimitero comunale -non sono in grado di affermare che si tratti di una mia esperienza singolare o se la stessa sia in qualche misura un’esperienza comune ad altri miei concittadini- uno tra i ricordi più suggestivi che conservo della mia infanzia e anche dell’adolescenza e oltre, è proprio quello delle mie lunghe passeggiate tra i viottoli del cimitero comunale.

Naturalmente ricordo quelle dell’immancabile appuntamento annuale del 2 novembre in compagnia dei miei, ma soprattutto ricordo quelle, più tranquille e molto più suggestive, fatte in solitudine a ogni occasione in cui mi toccava partecipare al funerale di un parente, o amico, o conoscente. Alla fine della cerimonia funebre, mi appartavo e quindi mi dileguavo tra quei viottoli. E ricordo bene, come quelle più emotive fossero le lunghe camminate fatte nelle fredde e grigie mattine autunnali, o quelle che più di rado capitavano in soleggiati e tiepidi pomeriggi invernali.

Quelle mie camminate perlustrative duravano qualche ora e il percorso non seguiva alcun itinerario prestabilito. Solo mi soffermavo a leggere le varie lapidi -nomi e date- specialmente quelle che attraevano la mia attenzione per sembrare essere più antiche, oppure quelle dai nomi meno comuni o addirittura stranieri, e anche quelle che ritrattavano personaggi d’altri tempi in uniforme militare.

Dalle date della morte cercavo di risalire al periodo storico dell’evento: Fine ottocento? La prima guerra mondiale? La seconda? Tra le due guerre? Nel dopoguerra? E quegli stranieri con spesso nomi inglesi? Erano militari o erano civili? E se erano donne oppure uomini non militari, perché erano sepolti a Brindisi? Saranno stati marini, o comunque viaggiatori di una delle tantissime navi che approdavano a Brindisi? Magari della Valigia delle Indie, magari erano stati colti in viaggio da un’improvvisa malattia, o sorpresi da una qualche grave epidemia?

Da ragazzo, quando non avevo affianco mio padre o mia madre ai quali chiedere, in certe occasioni annotavo nomi e date e poi cercavo di scoprire qualche indizio: a casa chiedevo a mio padre e a mia madre e finanche cercavo di rintracciare notizie sulle enciclopedie e in biblioteca. Ma era dura: …e già, non c’era ancora Google! Eppure qualche scoperta interessante -per quella mia fantasia fanciullesca e adolescente- riuscii anche a farla!

Ebbene, il luogo del cimitero che più d’ogni altro ha da praticamente sempre attratto vigorosamente la mia attenzione, e continua a farlo tuttora, è quell’ampio settore delimitato da una serie di innumerevoli croci bianche, tutte uguali: le decine e decine di croci dei giovani e giovanissimi marinai caduti della Benedetto Brin e dei tanti altri caduti negli abissi marini dell’Adriatico durante la seconda guerra mondiale.

Ma purtroppo, quel settore del cimitero richiama oggi la mia attenzione, e certamente anche quella degli altri visitatori, altresì perché si presenta sempre più fatiscente e sempre più desolato e triste, di una tristezza non accomunata al senso della morte, ma accomunata al senso dell’abbandono.

Ma com’è mai possibile? Perché tale abbandono? Sarà forse perché son già passati tanti anni -ormai cento- e quindi quei marinai sfortunati, italiani anche se non brindisini, non hanno più amici o parenti che possano depositare un fiore su i loro resti?

O sarà perché nel vortice frenetico della vita moderna si è perso il senso della compassione e anche quello del rispetto? E già: Non c`è più tempo per certe cose, ci sono ben altre questioni più urgenti da risolvere, si è sempre in ben altre faccende affaccendati.

 

Segni dell’abbandono in cui versa l’area tombale della Benedetto Brin nel cimitero

E chi dovrebbe occuparsi di rimediare tale infausta e sconcia situazione? Non ne sono del tutto certo, ma credo proprio che spetti alle autorità comunali della Città e a quelle militari e della Marina. E perchè mai dovrebbero farlo? Ma perché di motivi ce ne sono veramente tanti: la compassione e il rispetto per chi ha dovuto sacrificare la propria giovane vita in nome di quella nostra stessa “patria” sarebbero certo due ragioni di grandissimo peso e da sole dovrebbero bastare.

Eppure, io son convinto che in gioco ci sia anche qualcos’altro, forse ancor più importante: si tratta, temo, di un nuovo segnale della pericolosa tendenza alla definitiva dissoluzione della memoria storica della nostra Città. Se anche quest’abbandono continuerà, tra qualche anno quelle tombe non saranno più riconoscibili, i nomi dei marinai e le stesse date non saranno più leggibili, la sterpaglia coprirà e divorerà tutte quelle croci.

E allora nessun ragazzo brindisino si potrà chiedere di cosa si tratti, e il nome Benedetto Brin finirà col non dir nulla alla maggior parte dei brindisini… “Ma che strano nome ha quella via del Casale! Sarà Brin il diminutivo di Brindisino?” E già, potrebbe anche far  ridere, ma purtroppo questa domanda io l’ho già ascoltata una volta, e non ho riso: me ne sono solo un po’ rattristito.

Vabbè! Qualcuno potrebbe anche dire: “Poco male, non è poi così grave per la Città se dovesse accadere che dopo cent’anni ci si dimentichi della Benedetto Brin e della sua immane tragedia”. E certamente non sarebbe così grave se si trattasse di un episodio isolato, di una sfortunata dimenticanza, però non è così. Purtroppo noi brindisini sappiamo benissimo che, se dovesse accadere, questo nuovo abbandono si andrebbe a sommare alla triste e lunga collana di perle nere della nostra storia cittadina che negli anni si è andata sistematicamente arricchendo con sempre nuove perle nere: la torre dell’orologio, il parco della rimembranza, il teatro Verdi, il quartiere delle Sciabbiche, il bastione San Giorgio, il palazzo liberty del Banco di Napoli in Piazza Vittoria, o il palazzo Titi giù al corso, etc., etc., etc.

Purtroppo, infatti, nonostante l’importanza il valore e l’indispensabilità della conservazione della memoria storica di una comunità o di una città o di un’intera popolazione, costituiscano ormai concetti universalmente acquisiti tra le società civili, a Brindisi, complice in molti casi l’ignoranza e in molti altri la malafede, lo sport preferito da chi ha esercitato il potere decisionale, durante anni, decenni e ormai secoli, è stato quello del trascurare, dell’abbandonare, e finalmente del cancellare o abbattere.

Una volta ho sentito dire che molti dei giovani brindisini d’oggi non s’interessano alla storia della propria città perché non le vogliono sufficientemente bene poiché si sentono profondamente delusi e traditi dalla situazione in cui essa oggi versa. Io, invece, affermo che solo quei brindisini, giovani e meno giovani, ai quali non è stata opportunamente insegnata la storia della loro Città, possono non amarla: e giuro che è vero!

Non è voler fare allarmismo facile, né purtroppo si tratta di un pessimismo ingiustificato, ma sono semplicemente i fatti concreti e quotidiani che obbligano allo sconforto e all’allarme. Non si può e non si deve continuare a maltrattare disdegnare trascurare e finalmente cancellare ogni elemento, piccolo o grande prominente o secondario, che rimanda al passato prossimo o remoto che sia, e solo perché non rispondente all’utile misurato con il metro del rendiconto del tangibile immediato. E’ ormai giunto il momento di richiamare l’attenzione sul rischio che si possa finire con il perdere del tutto e irrimediabilmente la memoria storica della nostra Città.

E naturalmente neanche si vuol qui scoprire l’acqua calda. Infatti, a Brindisi non sono di certo mancati tanti bravi e autorevoli concittadini -come non citare ancora Papa Pascalinu Camassa- che in più e ripetute occasioni hanno a questo proposito segnalato, hanno avvertito, hanno denunciato, hanno protestato, avantieri come ieri e come oggi. Ma purtroppo non sono stati sufficientemente ascoltati e speriamo che si finisca con l’ascoltarli, prima che sia troppo tardi:

Io ti dico che se ne le tue vene non circola l’eredità dei millenni, che se nel tuo cuore non canta il poema de le lontane memorie, tu non sei un uomo, non rappresenti un popolo, né puoi vantarti d’essere membro d’una nobile città” Cesare Teofilato (1881-1961).

Il recupero della memoria storica deve rappresentare il momento fondamentale di ogni esperienza civica. La consapevolezza del nostro passato qualifica il rapporto con la città. Il corredo di testimonianze a noi vicine, alcune ritrovate e altre perdute o recuperate, sono tratti di un’identità alla quale una comunità ha il dovere di conformarsi allorché progetta il suo futuro” Domenico Mennitti (1939-2014).

Parecchi anni dopo l’affondamento, durante lavori rutinari di dragaggio del porto, fu fortunosamente recuperata la campana della Benedetto Brin e da allora la si conserva gelosamente nella cappella sacrario del Monumento al Marinaio: probabilmente, dal fondo del mare, un chiaro monito per tutti i brindisini a «non dimenticare».

             La campana della Benedetto Brin

E Brindisi, ne son convinto, non vuole “dimenticare” proprio come ben lo testimonia il professor Caputo nel suo racconto della Benedetto Brin: «Quanto scritto su vari libri, insieme a numerosi articoli giornalistici, a due vibranti lettere manoscritte -testimonianza degli storici canonico don Pasquale Camassa e avvocato Giuseppe Roma- e ad altre carte d’archivio ben fascicolate sono le risorse a cui attingere per sapere, perché questa tragedia accaduta a Brindisi, cent`anni orsono, che segnò tante vittime, rimanga una pagina di storia appartenente ad una Città che non vuol dimenticare, anche quando la sua storia è drammatica, tragica e luttuosa».

Concludo con una esortazione, anzi con un appello, al Sindaco di Brindisi: Perché non fare di questo melanconico anniversario Nº100 l’occasione propizia per restituire il giusto e dovuto decoro alle tombe dei marinai caduti a Brindisi nell’affondamento della Benedetto Brin, dando con ciò anche un chiaro segnale di una volontà politica volta al recupero ed alla conservazione della memoria storica della nostra Città?

La Storia e la Città ne rimarrebbero grate per sempre, perché come risaputo -dovrebbe esserlo- «la rimozione del passato corrisponde inesorabilmente alla rimozione del futuro».