di Giovanni Membola per IL7 Magazine
Brindisi e la sua provincia, un territorio dove il vino è una parte integrante della storia e della tradizione millenaria.
Le caratteristiche del terreno e del clima particolarmente favorevoli hanno permesso di conservare per millenni una importante, e per molti versi unica, memoria vitivinicola che risalirebbe addirittura alla civiltà micenea. Una coltura tramandata nei secoli come un’eredità preziosa: con amore generazioni di contadini hanno conservato e migliorato le tecniche di cura delle vigne, selezionando e rendendo specifiche alcune varietà autoctone divenute poi identificative dell’intero territorio, come il Negroamaro, la Malvasia nera e il Susumaniello. Quest’ultima varietà di probabili origini dalmate, è da sempre molto diffusa nella provincia di Brindisi, dove il suo nome richiama il termine “somarello”, vista l’elevata produttività della pianta carica di grappoli “come un somaro”. L’uva è stata utilizzata sino agli anni ’60 principalmente come mosto di colorazione e per questo molto esportata al nord. Con l’esaurirsi della domanda l’interesse è decaduto, ma l’alta concentrazione degli estratti delle bacche, e la buona acidità fissa, hanno permesso la sua riscoperta come vitigno da cui ottenere ottimi vini rossi, sia in purezza che in abbinamento con altre uve.
I romani, forse più degli altri, hanno lasciato importanti testimonianze che confermano la qualità e l’importanza del vino brindisino, ricercato e apprezzato in gran parte dell’impero, dove veniva distribuito e commercializzato, via mare nell’intero bacino del Mediterraneo, utilizzando le anfore costruite nelle fornaci di Apani, Marmorelle, Giancola e La Rosa. Grazie al ritrovamento di alcuni di questi contenitori “firmati” dai fabbricanti brindisini (bolli impressi sulle anse delle anfore prima della cottura), è stato possibile confermare la presenza di vino proveniente da Brindisi anche nelle cantine di Erode il Grande, in Palestina.
Proprio i romani, ben duemila anni fa, sono stati i primi ad attuare la cosiddetta filiera vitivinicola, ovvero la coltivazione delle uve, la lavorazione del raccolto, la trasformazione del mosto e la commercializzazione del vino presso la stessa azienda, un concetto moderno che oggi tanto si auspica per rilanciare le produzioni agricole locali e che da qualche anno alcune aziende private locali mettono in atto con successo. Plinio racconta del modo particolare di sostenere le viti, una tecnica di coltivazione chiamata “funetum”: s’intrecciavano i tralci ancora teneri tra vite e vite con raffia o con funicelle, in modo da formare un arco, così da sostenersi a vicenda.
Alcuni studiosi affermano che i romani allungavano il vino con l’acqua, calda o fredda, subito prima di berlo, probabilmente perché all’epoca la bevanda aveva una gradazione alcolica ed una consistenza molto più alta dell’attuale, si parla di una sorta di mosto alcolico dal sapore aspro e resinoso. Il rapporto di diluizione in acqua era deciso da un “arbiter bibendi”, le proporzioni potevano essere anche di sette parti di acqua ed una di vino, ciò può rendere l’idea del tipo di bevanda che talvolta veniva anche addolcita con l’aggiunta di miele. Inoltre già all’epoca non mancavano le manipolazioni con l’aggiunta di ingredienti utili – si credeva – ad una migliore conservazione del vino, o anche per renderlo più profumato ed aromatico con l’aggiunta di piante odorose come rosmarino, finocchio e anice, ma anche con chiodi di garofano, zenzero e cannella.
Nel medioevo si sviluppò la cosiddetta “viticoltura ecclesiastica”, dove il vino, oltre ad essere consentito alle comunità religiose e offerto ai pellegrini, era indispensabile per la celebrazione delle funzioni religiose e per la comunione dei fedeli. Si è assistito all’incremento delle proprietà agricole legate alle autorità ecclesiastiche ed ai monasteri, divenendo importanti centri di coltivazione della vite.
Un radicale cambiamento delle tecniche di coltivazione si è avuto nella seconda metà dell’800, quando la Fillossera, un insetto fitofago altamente dannoso che si nutriva delle radici della pianta, provocò in breve tempo la distruzione di interi vigneti in tutto il continente europeo. Da qual momento fu necessario rinnovare la viticoltura utilizzando portinnesti resistenti, ovvero su una pianta americana – il cosiddetto “piede”, dove l’apparato radicale era resistente all’insetto – veniva fatta attecchire una cultivar europea con la tecnica dell’innesto. Così la viticoltura conosciuta sin dai tempi antichi scompariva per sempre lasciando spazio ad una nuova forma di coltivazione.
Il vigneto per diverse generazioni è stato tramandato come una sorta di corredo genetico di una famiglia, ovvero dalle piante più vecchie venivano presi i tralci da utilizzare nell’innesto di un nuovo vigneto dello stesso nucleo familiare.
Settembre era l’atteso periodo della vendemmia, una vera e propria festa che richiamava tanta gente, un rituale dal forte significato sociale nel quale uomini e donne si riunivano per lo stesso obiettivo. Intere famiglie impegnate con passione nei campi sin dal sorgere del sole, tra canti, “cunti” e programmi per il futuro, era un modo gioioso per condividere il risultato di una intera stagione fatta di sacrifici e di speranze. Nelle strade di campagna e in città circolavano molti carri colmi di uva diretti agli stabilimenti vinicoli, dove l’odore del mosto segnava le lunghe ed impegnative giornate lavorative di tanti brindisini.
L’ultima grande trasformazione si è vissuta in quest’ultimo ventennio. Un mercato poco remunerativo e gli incentivi comunitari per l’estirpazione hanno drasticamente ridotto le superfici coltivate, troppo spesso trasformate in orrendi campi fotovoltaici, e i pochi vigneti rimasti o quelli reimpiantati hanno subito una rapida trasformazione della forma d’allevamento, passando dal tradizionale “alberello” all’attuale “spalliera”, per essere idonei alla completa meccanizzazione necessaria sia per mancanza di manodopera che per contenere gli alti costi di produzione.
L’alberello è il frutto della saggezza contadina che nel tempo ha messo a punto una forma di coltivazione ideale per un’area tendenzialmente a clima siccitoso, una forma di allevamento destinata inesorabilmente a scomparire (si è valutata una perdita di oltre il 90%), nonostante proclami di associazioni e le richieste di intervento di tutela per questo tradizionale sistema di coltivazione.
Ma agli ultimi viticoltori non si può chiedere di conservare una tradizione a proprie spese, nonostante siano consapevoli che l’estirpazione dei vecchi vigneti rappresenta anche una perdita di una importante identità agricola, culturale e paesaggistica dell’intero territorio.