
Il padre di Daniela era un avvocato. Pretese di sapere cosa stesse accadendo, prima di acconsentire a farli parlare con la figlia. Era una ragazza minuta, con i capelli tagliati corti e tinti di viola e un anellino d’argento su una narice. Una farfalla tatuata sul polso. Decisero di lasciare al padre il compito più ingrato. “Perché pensi ti abbia chiesto di non andare?” chiese Merlo, quando lei finì di tremare. “Non so. Ho pensato che non potesse più uscire. Una volta era capitato. Si era rotto un rubinetto in casa ed era rimasto ad aiutare. Ma poi non mi ha più chiamato. Ho provato tante volte, ma non rispondeva. Forse si era scaricato il cellulare. O si era rotto.” Scuoteva la testa, incredula. “Ma tu eri già per strada?” azzardò Fusco. “No, mi ero già vestita e così sono andata con la mamma a prendere le pizze”. “Posso confermare” intervenne il padre, “abbiamo cenato insieme, intorno alle nove”. C’era una punta di irritazione per il sottinteso della domanda, trattenuta dalla consapevolezza del dovere di indagine. “Sai se c’era qualcuno che poteva avercela con Simone” domandò Merlo. “Non davamo fastidio a nessuno, credo. All’inizio c’era la sua ragazza di prima. Simone l’aveva lasciata, perché diceva che era troppo gelosa. Però noi ci siamo messi insieme dopo, non è che l’aveva lasciata per me. Sara Medardo, si chiama. Va in classe con lui.” Prese a piangere, in silenzio, solo lacrime che scorrevano lungo le guance. “Ora dovreste andare. Per favore. Se avete bisogno chiamatemi e fissiamo un appuntamento. Mia figlia ha bisogno di stare tranquilla”. Ancora una volta, Fusco preferì tacere.
Merlo chiamò il medico legale. “Non ho la vista di Superman, io” annunciò l’interpellato, “quindi non pretendete tutto e subito. Comunque, è stato sfortunato. Non mi sembra una lama molto lunga, ma ha colpito in pieno il cuore. Non ci sono segni di difesa, l’ha preso alla sprovvista. Non se ne è accorto, quasi. Vi saprò dire di più quando avrò fatto un’autopsia con i soli poteri umani”.
Sara Medardo sembrava una venere del Botticelli. O una principessa Disney. Aveva lunghi capelli rossi ondulati e indossava un vestito azzurro chiaro, che accentuava l’aria angelica. In casa c’era anche la madre, che sembrava quasi una sorella di poco maggiore. “Quali erano i tuoi rapporti con Simone Panelli?” chiese Merlo. Scrollò le spalle: “Nessuno, ormai. Avevamo avuto una storia, ma niente di serio. Poi l’ho lasciato e si era messo con quella. Per dispetto, credo”. C’era una luce gelida nello sguardo, la presunzione della propria bellezza. “E ieri sera dov’eri?” continuò Merlo. La madre intervenne: “Perché fate queste domande? Cosa c’entra mia figlia con quello che è successo? Vi ha detto che non lo vedeva più, quello sfigato.” La guardava orgogliosa, certa che la ragazza potesse aspirare al massimo, con quell’aspetto. “Sono domande di routine, signora” sembrò scusarsi Fusco, “il nome di sua figlia è stato fatto in relazione alla vittima e abbiamo il dovere di indagare”. “Sono andata un po’ in giro. Non è vietato, fino alle dieci”. “Sei stata vista nelle vicinanze di via Lata” mentì Merlo, “il colore dei tuoi capelli è inconfondibile”. “Impossibile” le sfuggì, “li avevo legati sotto il cappuccio”. Si accorse subito dell’errore fatto. “Non che stavo in via Lata, ma li tenevo così, non si potevano vedere” provò a rimediare. “Perché ce l’avevi con Simone?” incalzò Fusco. La sicurezza cominciava a sgretolarsi. “Sempre a vantarsi di quanto stava bene insieme a quella, e quanto era contento e quanto era felice. Lo faceva apposta, per provocarmi. Voleva che ci ripensassi, sicuro. Ieri mattina glielo avevo detto, che per me andava bene di rimetterci insieme.” Aveva cominciato ad attorcigliarsi un ricciolo intorno alle dita, con la testa piegata di lato. Vagava con lo sguardo per la stanza, con le sopracciglia corrucciate, studiando le parole da dire. “E cosa ti ha risposto?” continuò Fusco. “Che non vedeva l’ora di lasciare quella per rimettersi con me. Perché non andate da lei a fare domande? L’avete già vista? Si vede che è cattiva”. “Il suo alibi è solido” intervenne Merlo, “Simone le ha detto di restare a casa, anche se avevano appuntamento. Perché doveva incontrare te?”. Sorrise: “Ve l’ho detto. La voleva lasciare”. “Quindi sei andata in vicolo della croce. Ti hanno visto” insistette Merlo. “Passavo per caso, ma non l’ho visto”. “Passavi per caso da una strada dove non ci sono negozi né altro…” sottolineò Fusco. Si innervosì: “E anche se fossi andata a vedere Simone? Ve l’ho detto che si voleva rimettere con me”. “Che cosa è successo?” incalzò Fusco. Vacillò: “Lo sapevo che si vedevano lì, così ho deciso di fargli una sorpresa. Vedendoci insieme avrebbe capito che cosa si perdeva a non tornare con me”. “Quindi ti aveva risposto picche, quando glielo hai chiesto tu”, Fusco ne studiava ogni sfumatura, consapevole del suo cedimento. Sbuffò: “ha detto che non sarebbe mai tornato con me. In classe, davanti a tutti. Non è che poteva scamparla così. Gliene volevo cantare quattro. A tutti e due. Poi ho pensato di minacciare lei. Di farle paura così si tirava indietro. Mi sono travestita. La felpa col cappuccio e i jeans. Come si veste lei. Così non mi riconosceva. Se le andavo dietro e la minacciavo con un coltello, la costringevo a lasciarlo. Invece Simone mi ha visto in fondo alla strada e si è messo a ridere. Se ne stava seduto e rideva. Poi ha detto di togliermi dalle scatole. Anzi, ha fatto finta di pregare, con le mani giunte e gli occhi chiusi e ha detto: Signore mio, non me la fare vedere più. E così l’ho accontentato. Ora non vede più nessuno”.
Si voltò verso la madre, a chiederne l’approvazione. Trovò un silenzio inorridito.
Era sera, quando finirono di compilare i verbali. Fusco spolverò la foto di sua figlia con la manica della giacca, prima di risistemarla sulla scrivania. “Devo comprale il panettone artigianale che le piace. Provo a spedirglielo, non so se riesce a venire con questa storia del Covid” disse, rivolto a Merlo. “Ne compro due” continuò, “uno vorrei portarlo alla signora maestra. Penso che le farebbe piacere”. Merlo si limitò ad annuire. Le parole non avevano alcun senso, a volte.
(3 - Fine)