Caro ….. ,
in realtà non so come ti chiami ma spero egualmente che qualcuno traduca per te questa lettera anche se so che non ti piacerà. So che non conosci l’italiano se non quelle poche frasi che ti permettono di chiedermi un po’ di soldi per mangiare, per offrirmi aiuto con il carrello della spesa fuori dal supermercato in cambio di cinquanta centesimi e quelle utili per ottenere il rinnovo del visto per rimanere in Italia o per richiedere il permesso di soggiorno.
Il fatto che tu non conosca la mia lingua e ne io la tua mi porta a conoscerti poco nonostante il bombardamento di notizie che quotidianamente mi arrivano dalla televisione e dalla rete. So della primavera araba, delle battaglie tribali del centro Africa, delle deportazioni e della schiavitù da cui fuggi; so che sei braccato, stuprato, offeso, perseguitato, che hai visto morire o hai dovuto abbandonare mogli, figli, genitori, fratelli e sorelle.
So che sei arrivato viaggiando in doppi fondi di camion scassati o stipato in barconi rimasti a galla a stento. So che hai sofferto la fame, il mal di mare, il freddo delle notti di tramontana sull’acqua, il caldo torrido di stive sovraccariche, la stanchezza di marce forzate. So che hai dovuto combattere, difenderti, fuggire, nasconderti e, forse, uccidere per non essere ucciso. Come vedi so tanto di te ma tutto questo, perdonami, non riesce a fare di te un mio simile. Il perchè non lo so ; me lo chiedo ma non lo so. E sai una cosa? Non mi sento razzista. Per niente.
Con gli albanesi a Brindisi sono stato un campione di solidarietà e in parrocchia sono fra i primi a donare piccole offerte, indumenti usati o pasti caldi; e anche nelle raccolte di fondi televisive non mi tiro certo indietro. Io ci sono sia per gli ospedali in Kenia che per i bambini del Congo; ci sono, sono lì con i miei uno, due o tre euro. Però allontano istintivamente da te i miei figli se ci incrociamo, nel supermercato non prendo il carrello che tu hai appena usato, non passo vicino a te se sei in gruppo, non mi viene neanche in mente di stringerti la mano, non mi fermo a cercare di capire cosa hai quando ti vedo barcollante, e sono preso quasi da fastidio quando mi attraversi la strada con la tua bicicletta scassata o quando cerchi di vendermi le rose al ristorante. Perchè non ti vedo come un fratello? Non lo so perchè. Me lo chiedo anch’io. Ma dovrei? Vediamo, ragioniamo assieme, fermiamoci un momento.
Anch’io ho una domanda per te : “Ma tu conosci me?” Si, d’accordo, basta un qualsiasi quotidiano per scoprire che sono pavido e menefreghista, che cerco minori su internet, che uccido prostitute in serie, che rapino, che ammazzo, che rubo e prendo tangenti. In questo , forse, siamo tutti uguali; è solo questione di circostanze. Io, però, quando mi rivolgo al mio Dio posso dire: “Dio! non chiedermi di elencare le tue meraviglie. Ti riconosco le stelle e i soli e i mondi innumerevoli ma ho misurato le loro distanze e li ho pesati e ho scoperto la loro materia.
Ho inventato ali per l’aria, e chiglie per l’acqua, e cavalli di ferro per la terra. Ho accresciuto milioni di volte la vista che tu mi desti, e l’udito che mi desti, milioni di volte; ho valicato lo spazio con la parola, e preso dall’aria il fuoco per farne luce. Ho costruito grandi città e perforato colline e gettato ponti su acque maestose; ho scritto l’Iliade e l’Amleto; ho esplorato i tuoi misteri e ti ho cercato senza posa, e ti ho ritrovato dopo averti perduto in ore di stanchezza. …” Questa è nient’altro che la mia storia fatta di scoperte, di intuizioni, di pensieri, di dolori e di sforzi. Io “sono” tutte queste cose.
Avrai già intuito che non sono uno schiavo del relativismo culturale, non sono capace di relativizzare, di mettere tutto sullo stesso piano, di non giudicare. E infatti trovo banale la tua musica che con un eufemismo chiamo “etnica”, inconcludenti i tuoi versi, retorici e strappalacrime i tuoi racconti, e fastidiosi i tuoi libri pieni di leoni, di baobab e di anziani del villaggio saggi e chiaroveggenti. Insomma non dirmi che possono essere paragonati alla nona sinfonia di Beethoven alla Divina Commedia, alla Cappella Sistina, al Macbeth o alle “Confessioni” di Sant’Agostino. Ma non è questa differenza che mi rende così distaccato. Non è solo presunzione e orgoglio. La verità è che mentre io continuo a sentirmi in colpa nei tuoi confronti, mentre cerco di capirti, mentre tento di superare questi miei limiti che io stesso, alcune volte, giudico meschini, io, da te, non mi sento né amato né, tantomeno, rispettato.
Ho la sensazione, ma è più di una sensazione, che questo incontro finale fra me e te tu lo immagini come un lungo cammino che devo percorrere soltanto io. Dovrò essere io a capirti nella tua lingua, dovrò essere io a ospitarti, dovrò essere io a venirti incontro, dovrò essere io ad organizzare per te l’accoglienza, a rispettare la tua religione, a stabilire per te una quota di case popolari, a cambiare il metodo del mio insegnamento nelle scuole, a non offenderti con i miei cibi da infedeli. E tutto ciò anche quando tu apri negozi cinesi e per te non valgono le regole che porterebbero in galera qualunque commerciante italiano, quando questuando per le città mi derubi e svaligi le mie abitazioni con la scusa di leggermi la fortuna, quando organizzi scientificamente nelle città del nord lo spaccio di droga, quando torni nella tua terra a comprare la carne che ti serve per la settimana perché dici che i nostri macellai sono sporchi e ladri, quando ti ubriachi e stupri le nostre ragazze, quando maltratti e derubi i nostri anziani mentre dovresti accudirli.
Perché devo essere io a capire il valore di una tua statuetta di legno che qui saprebbero fare anche i bambini e tu invece puoi orinare sul Battistero a Firenze come se fosse il più periferico dei muri di campagna? Perché io devo sentirmi in colpa se non mi interesso alle tue storie tribali e tu invece puoi tranquillamente evitare finanche di studiare la mia lingua? Perché ti indigni se dico semplicemente “africano” senza saper specificare se vieni dal Ghana, dal Camerun o dal Congo e tu invece puoi serenamente etichettarmi come “bianco”? Qualcuno ti vede come un problema, altri come un pericolo, altri ancora come una minaccia; io non arrivo a tanto ma vedo in te un profondo disprezzo e strafottenza nei miei confronti che non fa che ampliare il divario che già esiste fra noi.
E so che questo disprezzo e questa strafottenza la stiamo alimentando noi rendendoti ancora una volta vittima : di un vetero cattolicesimo (il cristianesimo è un’altra cosa) che ci vorrebbe tutti un po’ missionari, di una cultura dominante intrisa di relativismo culturale, di un dibattito pubblico impostato sul politicamente corretto, di una sinistra furbescamente pietosa, e pelosa, che ha fatto di te un simbolo.
Fai attenzione: stanno insegnandoti a pretendere senza capire, a chiedere senza dare, ad avere senza meritare. Io credo che tutto ciò, forse, potrà anche aiutare la tua integrazione (parola sulla quale io e te abbiamo idee diversissime), ma, senza dubbio, allontanerà il momento di quell’incontro fra me e te fondato sulla comprensione e sul rispetto che tutti e due auspichiamo e se non per noi almeno per i nostri figli. Per farlo dobbiamo cambiare sia tu che io. Diamoci da fare, la strada è lunga e difficile … però camminiamo uno verso l’altro così facciamo prima e, soprattutto, ci incontriamo a metà strada e non, inevitabilmente, come pensi tu, dalle tue parti.
Absit iniuria verbis.
A.Serni
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