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Scardia, presidente del Tribunale: “Credo nella magistratura come servizio, non come potere”

Di Marina Poci per il numero 355 de Il7 Magazine
Intercettiamo il presidente del Tribunale di Brindisi, Vincenzo Scardia, a poche ore dall’inaugurazione – alla presenza di pochissime autorità e di nessun giornalista – del “Luogo della Solidarietà”, una stanza del Palazzo di Giustizia nella quale chiunque lo voglia (tra magistrati, avvocati, personale amministrativo ed appartenenti alle forze di polizia) potrà depositare prodotti per il confezionamento e lo smistamento del cibo destinati alle sedici parrocchie cittadine che si sono unite nell’associazione “Parrocchie solidali Brindisi” e provvedono, a turno, a somministrare un pasto al giorno alle circa duecento persone di diversa nazionalità che vivono in una condizione di indigenza tale da non consentire loro di procurarsi autonomamente da mangiare. Quando gli chiediamo la ragione di questa scelta di riservatezza, risponde con semplicità disarmante: “Puntiamo sulla sobrietà. Per far conoscere l’iniziativa, abbiamo optato per la forma del comunicato stampa, anziché coinvolgere i giornalisti in presenza: è importante fare, più che far vedere”. Ebbene, ad un anno dall’insediamento, avvenuto l’8 giugno 2023 nell’aula bunker Metrangolo, questa speciale mistura di discrezione, equilibrio e continenza, compendiabile nell’espressione “sobrietà”, appare il tratto peculiare della presidenza Scardia. Un tratto che il magistrato originario di Squinzano rivendica con la fierezza di chi è cosciente di esercitare un ruolo capace di incidere in maniera più che penetrante sul tessuto sociale e, per questo, presta attenzione ad ogni passo che compie, dentro e fuori dalle aule giudiziarie.
Si parla molto di vicinanza delle istituzioni alla società civile: intervenire sui bisogni primari dei più fragili, come la mancanza di cibo, sembra un modo ottimo per favorire questa prossimità.
“Assolutamente sì. E in questo senso mi piace sottolineare questa favorevole coincidenza di vedute tra il presidente del Tribunale, il presidente della sottosezione brindisina dell’Associazione Nazionale Magistrati, Giuseppe De Nozza, e il procuratore della Repubblica, Antonio De Donno, nell’incentivare e sostenere questa vicinanza. Recentemente ci sono state una donazione del sangue straordinaria nel cortile del Palazzo di Giustizia, in accordo con la ASL di Brindisi; poi la Corsa per la Legalità a San Pietro Vernotico, un momento di incontro con atleti, giovani e famiglie che aveva come fine il supporto alla lotta contro la violenza di genere, tanto è vero che il ricavato delle quote di iscrizione è stato devoluto ad un’associazione che si occupa di tutelare le donne vittime di violenza. E poi qualche giorno fa c’è stato il processo simulato con gli studenti di una scuola di Francavilla Fontana, perché ci teniamo a mostrare ai giovani cosa accade davvero nelle nostre aule. È la magistratura che vuole dialogare con la società e non arroccarsi nella torre d’avorio degli uffici”.
Ritiene che a livello nazionale questa contiguità manchi o sia mancata negli ultimi anni? Certamente la pandemia da Covid-19 non l’ha favorita.
“Il Covid è stato un fattore di isolamento collettivo che ha inciso profondamente sulla vita di relazione di ciascuno, lasciando anche degli strascichi. Se ha inciso sul rapporto tra magistratura e società civile? Forse sì e forse no. Credo che, più che altro, incida il fatto che noi affrontiamo problematiche tecnico-giuridiche sulle quali è difficile coinvolgere l’uomo della strada, anche se il risvolto finale di quelle problematiche lo riguarda. Però, da un po’ di tempo, anche sotto la spinta dell’ANM, le iniziative sono riprese. Sono convinto che una magistratura isolata non possa svolgere bene il suo compito: l’ordine giudiziario è composto da uomini e donne che fanno parte della società civile e con essa devono dialogare”.
Quando ha preso corpo la sua scelta di diventare magistrato?
“Penso sia il sogno della maggior parte degli studenti universitari che si iscrivono al corso di laurea in Giurisprudenza. Devo dire che io, accanto a questo, per un certo periodo ho coltivato anche il sogno del notariato: per questo motivo chiesi la tesi al mio professore di diritto privato su un argomento da cui in genere gli studenti si tengono lontani, ovvero le successioni per causa di morte, nella convinzione che mi sarebbe stato utile se avessi intrapreso quella strada. Strada che è poi sfumata, a favore del concorso per commissario di Polizia, vinto prima di tentare quello in magistratura. Lavoro che ho poi svolto con grande impegno e soddisfazione. Quindi, per tornare alla sua domanda, più che di essere un magistrato, la mia scelta è stata quella di essere un servitore dello Stato. Ho servito prima con la divisa e poi con la toga”.
Quindi lei è stato un magistrato penalista per tutta la vita, ma si è laureato con una tesi in civile.
“Non è esattamente così: inizialmente sono stato pretore mandamentale a Nardò. Un’ottima palestra, perché mi ha consentito di confrontarmi con quasi tutto lo spettro del diritto: penale, civile, lavoro, volontaria giurisdizione. Poi sono passato alla Pretura circondariale di Lecce, occupandomi di esecuzioni e contenzioso ordinario. Perciò ho fatto il giudice civile per circa sei anni. Ad un certo punto mi fu detto che, per essere un magistrato completo, avrei dovuto fare una breve esperienza nel settore penale. Una breve esperienza che dura da circa trent’anni…”.
Per il pensionamento le mancano ancora un bel po’ di anni, ma pensa mai a come sarà la sua vita senza la toga?
“Certo che ci penso. La vita è fatta di fasi. La toga idealmente mi resterà cucita addosso. Anzi, dentro. Ma, quando arriverà il momento, la appenderò al chiodo e, pur continuando a seguire le vicende dalla magistratura e la realtà associativa dell’ANM, farò tutt’altro. Possibilmente tutto quello che il mio lavoro, bellissimo ma faticosissimo, non mi ha consentito di fare in questi anni”.
In genere si chiede sempre alle donne, e molto poco agli uomini, se nel corso della propria carriera siano state costrette a scegliere tra professione e famiglia: a lei è capitato?
“Mai. Non c’è stato bisogno di scegliere, perché ho avuto la fortuna di avere una moglie e dei figli che mi hanno sempre supportato nella mia vita professionale, non facendomi pesare il tempo e le attenzioni che sicuramente in qualche caso sono mancati. A loro va la mia profonda gratitudine”.
Dal suo insediamento è passato un anno: su quali criticità ha lavorato in questo periodo e quali risultati sono stati raggiunti?
“Mi consenta una premessa: ho avuto la fortuna di arrivare in un ufficio giudiziario che mi avevano sempre descritto come un ottimo ufficio, da più punti di vista. E mi riferisco alle qualità dei magistrati che vi lavorano, all’organizzazione del personale amministrativo (ottimamente coadiuvato dai giovani assunti per l’Ufficio del Processo) e alla professionalità del foro brindisino. Tutte caratteristiche che confermo e che hanno senz’altro favorito il mio compito di presidente. Brindisi è una realtà che è un piacere guidare. E penso di avere un rapporto ottimo con gli avvocati, molto preparati e altrettanto disponibili, e con il personale amministrativo, al quale sin dal primo giorno ho chiesto collaborazione nel rapportarsi con l’utenza mostrando il sorriso. La stessa cosa ho chiesto ai colleghi: non abbiate paura di condurre l’udienza con il sorriso, non chiudetevi nelle vostre stanze. La gentilezza non scalfisce la professionalità. Non ho mai pensato di esercitare esclusivamente una funzione o un potere, ma di offrire un servizio: è il principio ispiratore che ha animato tutta la mia vita di magistrato”.
La magistratura come servizio, non soltanto come potere e funzione: sarebbe un ottimo titolo per questo pezzo, proverò a suggerirlo al mio direttore. Lei intanto pensi a un futuro da titolista…
“Ho ancora qualche anno per fare il giudice, poi magari mi metterò a scrivere…”
Per tornare agli obiettivi della sua presidenza…
“Anche grazie al lavoro infaticabile di chi mi ha preceduto, e cioè il dottor Valerio Fracassi, non ho trovato grosse criticità. Quello su cui ci stiamo concentrando maggiormente è il raggiungimento degli obiettivi del PNRR, dando una risposta giudiziaria che unisca efficienza e qualità. Su questo abbiamo lavorato moltissimo, nonostante la piaga della carenza di organico affligga anche il nostro ufficio giudiziario. E vorrei sottolineare che abbiamo lavorato anche dal punto di vista strutturale, climatizzando quasi l’intero palazzo e prevedendo di iniziare gli interventi di rifacimento di tutti i servizi igienici. Inoltre, da settembre scorso, mancando il dirigente amministrativo, ho dovuto svolgere le funzioni mancanti, così come prevede la legge. Tanti fronti aperti, ma è una sfida che ho accettato con il senso del dovere che merita”.
In quale modo è possibile coniugare l’efficienza con la qualità?
“Non dimenticando mai che noi produciamo giustizia: ogni provvedimento emesso ha bisogno del suo tempo di studio, riflessione e stesura. I numeri sono importanti, ma non possiamo lavorare a loro servizio. Poi naturalmente c’è un monitoraggio periodico, che svolgo con i presidenti di sezione. E, su questo aspetto, devo dire che la situazione è tutto sommato positiva, sia con riguardo ai tempi di smaltimento dell’arretrato, secondo le indicazioni dell’Unione Europea, sia con riguardo alla contrazione dei tempi di durata del processo”.
Volendo farne una questione strettamente matematica?
“Ci sono degli obiettivi già centrati. Tanto per dirne uno, per alcuni settori l’obiettivo che il PNRR ci chiedeva di conseguire entro il 31 dicembre 2024, come Tribunale di Brindisi lo abbiamo raggiunto il 30 aprile. Mi riferisco, ad esempio, alla digitalizzazione del processo civile, attività che – una volta conquistato il target 2024 – stiamo continuando ad effettuare in anticipo sul nuovo target del 2025”.
C’è un orientamento, minoritario, che ritiene che in Italia non esisterebbe un vero e proprio problema di scopertura di posti negli uffici giudiziari, ma che l’arretrato dipenderebbe da una questione eminentemente culturale, cioè dalla tendenza dei cittadini a privilegiare la via giudiziale, piuttosto che quella stragiudiziale, per la risoluzione delle controversie: come valuta questo indirizzo di pensiero?
“Non lo condivido. Il problema non è, e non può diventare, il tasso di litigiosità degli italiani. Da magistrato, sono convinto che l’accesso alla giustizia debba essere garantito nella maniera più ampia possibile. Lo prevede il nostro sistema costituzionale. Il problema è il tasso di scopertura che, in Italia, è pari al 15%, con punte anche maggiori. Basti pensare che nell’ufficio del Giudice di pace di Brindisi sono previsti quattordici magistrati ma, attualmente, ne abbiamo in servizio cinque. In Tribunale mancano tre magistrati nella sezione civile e tre nella sezione penale. Se a questo aggiungiamo che alcune riforme, piuttosto che agevolare la celerità dei processi, vanno in tutt’altra direzione, diventa chiaro che non possiamo attribuire l’eventuale mancato smaltimento degli arretrati e la lentezza dei procedimenti al tasso di litigiosità dei cittadini o alle scelte della classe forense, come sostengono altri opinionisti. Inutile dirle che, anche rispetto a questa corrente di pensiero, mi pongo in contrapposizione: gli avvocati svolgono il ruolo che l’ordinamento riconosce loro e se ritengono, agendo entro il recinto normativo, di assicurare i diritti dei loro assistiti andando a dibattimento e non chiedendo il patteggiamento, è giusto che quella scelta sia tutelata. Pensiamo a prevedere interventi deflattivi e a coprire i posti scoperti, non a privare i cittadini della possibilità di accedere alla giustizia”.
Da magistrato, come spiegherebbe la questione della separazione delle carriere a uno studente delle scuole superiori?
“La si può vedere in vari modi: come una ineliminabile necessità dettata dal modello accusatorio recepito dal nostro codice di procedura penale o come una scelta non necessaria, anzi dannosa, per il sistema. Oggi tutti i laureati in giurisprudenza che vogliano accedere alla magistratura si presentano alla stessa procedura concorsuale. I vincitori non sono, a monte, destinati a svolgere funzioni penali o civili (e, nel penale, o requirenti o giudicanti), ma lo saranno dopo il periodo di tirocinio, con possibilità, dopo la riforma Cartabia, di cambiare funzioni nel proprio percorso professionale una sola volta. Il passaggio da una funzione all’altra (cioè nel penale dalle funzioni di pubblico ministero a quelle di giudice) non è altro che un arricchimento del magistrato. Impedirlo per legge limiterebbe fortemente quell’osmosi di esperienze professionali in capo ad una stessa persona che io ritengo una grande risorsa formativa. Separare le carriere significa prevedere due accessi separati, con due percorsi formativi separati. Questo spiegherei a uno studente, aggiungendo che il timore che il pubblico ministero, in quanto collega della porta accanto del giudice, possa interferire sulla decisione del magistrato giudicante e trovarsi quindi in una posizione di privilegio rispetto all’avvocato, è un’ipocrisia concettuale. Il numero di archiviazioni e assoluzioni che ogni anno registriamo sta a dimostrare nei fatti che il giudice non è pronto alla tesi dell’accusa”.
Su cosa si fonda questa ipocrisia concettuale?
“Sul fatto che, se abbracciassimo la tesi di chi sostiene la separazione delle carriere, dovremmo separare, ad esempio, anche le carriere del gip da quelle del magistrato del Tribunale del riesame, che ne valuta i provvedimenti. O quella del magistrato di primo grado da quella del magistrato di secondo grado, chiamato a decidere sull’appello delle sentenze di tribù. Se il preconcetto vale, deve valere per tutti. Altrimenti resta un’ipocrisia, basata sulla logica del sospetto”.
Se quello stesso studente le dicesse che gli piacerebbe diventare un magistrato, cosa gli consiglierebbe?
“Coltiva il tuo sogno e non avere paura di definire sogno la tua aspirazione. È un lavoro massacrante, ma per me resta il più bello del mondo”.
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