«Tu dici spesso che non ti amo e invece io non posso fare a meno di te», così scriveva Alberto Moravia in una delle 110 lettere indirizzate alla moglie Elsa Morante.
Da queste parole, si stenta a credere che il suo fosse un «amore senza innamoramento» come ebbe a definirlo più tardi lo stesso scrittore, ma va detto che la cifra distintiva di questa unione è proprio la contraddizione, espressa attraverso un utilizzo chirurgico delle parole: «Non sono mai stato innamorato di lei – confessò lo scrittore dopo molti anni dalla fine della loro storia – Innamorarsi è una cosa, amare un’altra cosa… Elsa l’ho molto amata, mi ha fatto soffrire molto… non posso dire di essere stato innamorato di lei».
Morante e Moravia (destinati a stare per sempre una affianco all’altro nelle biblioteche e nelle librerie) sono stati sposati per 26 anni. Un matrimonio tempestoso e sofferto, segnato da grandi slanci e rotture clamorose.
Quando il pittore Giuseppe Capogrossi li presentò nella birreria Dreher del centro storico di Roma, punto di ritrovo di molti artisti e intellettuali, lui aveva 29 anni, lei 24.
È il novembre del 1936 (anno in cui, a Firenze, nasce Dacia Maraini, per la quale lo scrittore lascerà Elsa).
Non potevano essere più diversi Elsa e Alberto, per carattere, per il modo di affrontare, la vita, per estrazione sociale.
Alberto Moravia (all’anagrafe Alberto Pincherle)appartiene a una solida famiglia borghese: il padre architetto e pittore, la madre di famiglia benestante. Alle spalle un’infanzia “normale, benché grave e solitaria” nel villino di via Gaetano Donizetti 6, progettato dal padre.
Piacente e sicuro di sé, quando incontra Elsa è già uno scrittore affermato: ha al suo attivo il successo del suo romanzo d’esordio “Gli indifferenti” dato alle stampe nel 1929.
Elsa Morante è una giovane minuta e nervosa, dallo sguardo intenso, cresciuta nel quartiere Testaccio, a Roma in una famiglia di modesti lavoratori: la madre, maestra elementare di confessione ebraica e il padre naturale, impiegato postale. Alla nascita, la piccola, come i suoi fratelli, viene riconosciuta dall’allora marito della madre, Augusto Morante sorvegliante in un istituto di correzione giovanile.
La sua formazione culturale si era interrotta con il diploma liceale, perché le condizioni economiche della famiglia non le avevano consentito di frequentare la Facoltà di Lettere, dove si era iscritta. Narratrice appassionata, collabora con riviste e quotidiani (il “Corriere dei Piccoli” e il “Meridiano di Roma“) su cui compaiono le sue prime prove letterarie.
«Quando l’ho conosciuta – dirà Moravia allo scrittore e amico Enzo Siciliano nel 1971 – Elsa abitava in un piccolo appartamento molto carino a corso Umberto. Non aveva letteralmente di che mangiare. Viveva compilando tesi universitarie. Non era capace di fare altro: era molto accurata nelle ricerche e scriveva bene. Mi ricordo che fece una tesi su Albertazzi e un’altra su Lorenzino de’ Medici; me ne parlava continuamente. Quando ci siamo sposati, ho dovuto pagare le sue cambiali; neanche io avevo molti soldi e dovetti pensare a come guadagnarli».
I due vanno a convivere nel 1937. Alberto è di padre ebreo e di madre cattolica, Elsa è di madre ebrea. Questa circostanza avrà un peso non indifferente, nonostante venga sottaciuta da entrambi nel timore che pregiudichi il loro futuro letterario. Ma quel “segreto” sarà, insieme con la passione per la scrittura, il denominatore comune della loro storia d’amore.
La testimonianza della genesi e della profondità di questo amore viene custodita nelle “Lettere ad Antonio”, il diario della Morante (pubblicato postumo col titolo di “Diario del ‘38”). La figura maschile evocata in queste pagine viene indicata con l’iniziale A. (A come Alberto), ma al centro di tutto ci sono le angosce, le domande, l’ansia di maternità, i turbamenti che spesso si rivelano attraverso i sogni: «Sonno interrotto e sogni confusi. Ricordo solo di aver sentito da casa squilli di campanelli lontani che mi chiamavano, e di aver percorso le scale drappeggiata in un lenzuolo e in una coperta, e così procedendo di aver incontrato un uomo piuttosto basso e pallido vestito di grigio. Sonno interrotto da telefonate di A., notte tutta piena di dolcissimi turbamenti lascivi. Mi atterrisce il domani incerto. Amo terribilmente A.».
I due si amano, ma spesso si separano «A. mi vuole bene – scrive la Morante all’amica Luisa Fantini nel 1938 – ma ogni tanto scappa via verso i più lontani paesi. Poi dice che bisogna finirla e poi mi prega di non finirla per carità».
Ciò che li divide e li rende diversi fa soffrire Elsa: «Ora poi ho scoperto che io non sto stare al mondo e da quel momento siamo diventati una specie di favola perché in qualunque luogo e in mezzo a qualunque consesso rispettabile non finisce mai di farmi delle prediche e di arrabbiarsi a vuoto perché io al mondo non ci saprò mai stare. Vorrei, non so come dirti – confida alla Fantini – fargli sentire delle parole bellissime, una musica tanto potente da riuscire a spiegargli che cosa è la vera bellezza della vita e del mondo. Lo vedo aggirarsi in quella sua specie di sotterraneo, agitarsi, dare schiaffi, annoiarsi e per quanto mi sforzi non riesco a portarlo via di là».
Tra alti e bassi, la loro relazione culminerà il 14 aprile 1941, lunedì dell’Angelo, nel matrimonio, officiato con rito cattolico nella chiesa del Gesù da padre Tacchi Venturi (il gesuita che aveva negoziato il Concordato con Mussolini), zio di Capogrossi e guida spirituale della devotissima Elsa. «Inginocchiato, sentivo alle spalle i nostri testimoni Longanesi, Pannunzio, Capogrossi e Morra (…) – ricorderà Moravia – Io non ero credente, ma accettai (la cerimonia religiosa) per far piacere ad Elsa». (Le Matin des Livres, 1984).
Il loro rapporto continua ad essere difficile e tormentato, segnato com’è da sfuriate in pubblico, separazioni e ritorni, bisogno di comunicazione e di affetto a cui si alternano fratture e esigenze di autonomia. La maternità mai realizzata è motivo di sofferenza per la giovane Elsa.
Nei due anni successivi, verranno travolti dalla Storia: le leggi razziali e la guerra marchieranno a fuoco la loro vicenda umana e letteraria.
«Una mattina dopo l’8 settembre (1943) – scrive Moravia – un ungherese che presiedeva l’Associazione della Stampa estera mi disse: “Guardi che lei è nelle liste delle persone da arrestare”»: l’accusa è di essere antifascista. Roma non è più un posto sicuro per loro. È cominciata la caccia agli Ebrei.
Alberto ed Elsa partono in fretta alla volta di Napoli dove non arriveranno mai perché il treno per Formia si blocca alla stazione di Fondi-Monte San Biagio, in provincia di Latina.
Per ripararsi dai bombardamenti e sfuggire alle retate naziste, si spingono verso le montagne della Ciociaria. Grazie all’amico Augusto Mosillo, trovano rifugio in una casa rurale vicino a Sant’Agata, con altri sfollati. Vivranno lì dal settembre del ’43 al maggio del ’44.
«E’ stata un’esperienza piuttosto bella: con tutte le paure che avevamo, quello fu uno dei momenti più felici della mia vita – racconta lo stesso Moravia nella biografia intervista a Enzo Siciliano – Ero sposato da poco: avevo in tasca ottantamila lire; con quelle abbiamo vissuto per quasi un anno (…) i contadini mi consideravano un riccone! (…) Stavamo in una capanna con un letto di tavole e sopra un pagliericcio di pannocchie. La coperta era un ferraiuolo da contadino. Faceva talmente freddo che l’acqua del pozzo era sempre ghiacciata. Ogni mattina Elsa se ne rovesciava un secchio sulla testa; io mi limitavo a farlo una volta alla settimana e sembrava anche troppo. Ero arrivato a Sant’Agata magrissimo; mi rimisi rapidamente senza neanche mangiare un granché… un po’ di polenta la sera. Durante la giornata qualche cipolla e delle carrube».
«Elsa era proprio una bella donna – ricorda il prof.Augusto Mosillo – (…) emanava un fascino non indifferente. La sua avvenenza era tale dal far perdere la testa. Tutti noi restavamo incantati a guardarla. Una bellezza fresca, leggera. Tratti minuti, profilo severo, da attrice quasi. Un’espressione da bambina un po’ imbronciata. (…) Possedeva una cultura straordinaria. (…) Moravia l’adorava».
Quei mesi alla macchia lasceranno tracce indelebili in entrambi. Anni dopo Moravia ricordò che la sua vita era stata cambiata da due eventi: la tubercolosi all’età di nove anni e la guerra.
Da quell’esperienza ricaverà la trama del romanzo “La Ciociara” (pubblicato nel 1957) che, nel 1960 diventerà un celebre film con Sophia Loren e Jean Paul Belmondo diretto da Vittorio De Sica: per quell’interpretazione La Loren vinse l’Oscar come Migliore Attrice Protagonista.
Elsa vi trarrà spunti e personaggi per il suo romanzo “La Storia” (Einaudi, collana Gli struzzi, 1974, che compare nella lista dei cento migliori libri di tutti i tempi, stilata dal Club norvegese del libro nel 2002). Nel 1986 il regista Luigi Comencini dirigerà il film omonimo con Claudia Cardinale nel ruolo della protagonista Ida Ramundo.
Alberto ed Elsa rientrano nella Capitale nel giugno del ’44.
Il loro rapporto continua all’insegna della conflittualità. Gli scontri si alternano ai momenti felici, ma anche in quelli, Elsa accusa il marito di essere arido ed egoista.
Lui è preso totalmente dalla malìa della scrittura. Lei ne è quasi infastidita. Lui scrive per quattro ore, ogni giorno: «Il giorno che morirò tu scriverai».
Elsa gli rinfaccia di non amarla abbastanza: «Dio che solitudine. Toccare il fondo della solitudine, sì, è la parola – scrive nel ’45 sul suo diario – Un viso che sia un viso d’amore che dimentichi se stesso che ti guardi per un attimo almeno dimenticando se stesso ti guardi con amore Dio mio dove dove?… almeno potessi dormire… In cambio dell’ amore ho avuto grettezza e gelo. Che finisca presto tutto che finisca che finisca».
«Non si vive per venticinque anni con una persona senza amarla» – ribatterà Moravia molti anni dopo.
Finita la guerra lo scrittore diventa sempre più famoso. “La Romana” del 1947 è un grande successo e “Menzogna e sortilegio” della Morante pubblicato nel 1948, viene giudicato dal critico letterario unghereseGyörgy Lukács «il più grande romanzo italiano moderno».
È la consacrazione letteraria della coppia.
Ma queste due eccellenze non sapranno più gestire il loro rapporto umano.
L’idillio dei primi anni si è trasformato in un male oscuro e sottile, dove la creatività letteraria e la notorietà provocano un inesorabile logorio di nervi.
«Le coppie di letterati sono una peste – confessa Elsa all’amica Maria Valli, moglie dell’editore dei racconti di Moravia – Tu mi domandi dell’amore…Esso va male, nel senso che mi pare impossibile d’averlo mai provato e di poterlo provare ancora. Com’era? Che cos’era? Eppure mi sembrava d’esser tanto versata in questa materia, invece ho dimenticato tutto. In compenso il mio libro (“Menzogna e sortilegio”) è pieno d’amore».
Nell’agosto 1948 il “libro pieno d’amore”, “Menzogna e sortilegio” vince il premio Viareggio.
La coppia va a vivere in un attico nei pressi di Piazza del Popolo, in via dell’Oca 27.
Sono gli anni del successo: Moravia fonda la rivista Nuovi Argomenti, che sarà protagonista di numerosi dibattiti letterari, politici e filosofici. La Morante, dopo il successo di “Menzogna e sortilegio”, con “L’isola di Arturo” (pubblicato nel 1957 ), vince il Premio Strega, per la prima volta assegnato ad una donna.
Da quel momento in poi Elsa Morante non è più solo la “moglie di Moravia” .
Successo e notorietà non bastano: Alberto si lascia sopraffare da una noia cosmica che, come confessa nell’omonimo romanzo, lo ha sempre accompagnato, ma che ora non gli dà tregua:
«Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso di mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altre simili cause» (“La noia”, 1960). Lo scrittore |
Alberto Arbasino racconta che Moravia per sottrarsi appunto ad un opprimente taedium vitae usciva dal caffè Aragno contando «le macchine che passavano sul corso in un’ora». Le contraddizioni, abbiamo detto, sono la cifra peculiare di questo rapporto: sarà Moravia stesso a sottolineare: «Non sono mai stato innamorato di lei. Innamorarsi è una cosa, amare un’altra cosa… Elsa l’ho molto amata, mi ha fatto soffrire molto… non posso dire di essere stato innamorato di lei». Questa dichiarazione lascia spiazzati. Eppure nella prefazione al volume “Quando verrai sarò quasi felice, sottotitolo Lettere a Elsa Morante 1947-1983” (edito da Bompiani, storico editore di Moravia (pp. 266, 19 euro) a cura di Alessandra Grandelis, il concetto è chiaramente ribadito e testimoniato dalle missive. |
Cosa abbia risposto la Morante a queste lettere non lo sapremo mai, perché Moravia soleva cestinare quelle che riceveva immediatamente dopo averle lette. «Tu dici spesso che non ti amo e invece io non posso fare a meno di te» (7 agosto 1950), «Cara Elsa, io ti amo ancora tanto, che basta una tua parola sgarbata per farmi soffrire. Purtroppo c’è in te come un demone che ti spinge a dirmi sempre delle cose spiacevoli. Perché non sarebbe possibile cambiare tutto ciò?» (1950),«Lavora bene e cerca di mangiare cose buone» (1 agosto 1951), «Ho capito che ti amo molto cosi sentimentalmente come fisicamente…Vorrei tanto che tu fossi qui e ho tanto desiderio di baciarti e di fare l’amore con te» (12 agosto 1951), «Ti lascio cara Elsa e ti bacio forte e con affetto nel luogo della tua persona che preferisci» (15 agosto 1951).
Il legame tra i due è stretto e rimane tale anche dopo che, nel ’55, lei s’innamora di un’altra persona, «continuammo a vivere insieme come amici per sette anni, fin quando mi innamorai di Dacia».
Sì, perché negli anni Cinquanta, la loro relazione sia avvia gradualmente verso la fine, anche se nel gennaio 1961 partono con l’amico Pier Paolo Pasolini in India: visitano Calcutta, Bombay e il sud del Paese. Da questo viaggio nascono due reportage: “Un’idea dell’India” di Moravia, e “L’Odore dell’India” di Pasolini.
Dopo 26 anni, nel 1962, il matrimonio si è consunto e i due si lasciano definitivamente.
Moravia conosce Dacia Maraini (che sarà la sua compagna fino al 1976, anno in cui comincerà a frequentare Carmen LLera, di 45 anni più giovane di lui e che sposerà in Campidoglio nel 1996) e la Morante, dopo una breve infatuazione per il regista Luchino Visconti («le tremavano le ginocchia e arrivava a parlar in milanese» testimonia lo stesso Moravia), conosce nel 1959 il pittore americano Bill Morrow a New York e se ne innamora. Lui la raggiunge a Roma ai primi del ’60.
La sua tragica fine, (l’artista si gettò dall’Empire State Building nel 1962), provocherà nella Morante una grave forma di depressione: «Elsa entrò in un lutto lungo e disperato» scrisse Enzo Siciliano.
Si separano legalmente: Alberto per vivere con la Maraini, Elsa invece, non avrà più alcuna relazione sentimentale.
Anni dopo Moravia dirà: «Elsa è stata veramente la donna con la quale ho vissuto il periodo più politico e più pubblico della mia vita. Ho così un ricordo di Elsa attraversato dalle tragiche vicende di quegli anni. Forse anche per questo il nostro rapporto è stato particolarmente drammatico. Avrei continuato a vivere con lei se non mi fossi innamorato di Dacia Maraini (…) nella vita preferisco, prima di rompere un rapporto così importante come quello tra Elsa e me, di trovarne un altro altrettanto importante che lo sostituisca».
Non sopportando più la dolorosa condizione dovuta alle conseguenze della rottura di un femore, Elsa Morante tenta il suicidio avvelenandosi con il gas nel 1983. Ricoverata in ospedale e sottoposta ad un intervento chirurgico, muore d’infarto il 25 novembre 1985.
«Ho appreso la morte di Elsa a Bonn, in Germania, dove mi trovavo in viaggio per un’inchiesta giornalistica. Era pieno inverno (…), ho camminato a lungo nella neve. Ero commosso e cercavo di dissipare la commozione con il gelo della giornata invernale. Tornai a Roma in tempo per il funerale (…). Nella corsa del carro funebre i fiori, probabilmente male assicurati alla corona, volarono via uno dopo l’altro e andarono a schiacciarsi sull’asfalto: quei fiori che volavano via tra il carro funebre di Elsa e la mia macchina mi fecero un’impressione delirante e simbolica: così era volata via Elsa dalla mia vita».
Moravia venne trovato morto nel bagno del suo appartamento in Lungotevere della Vittoria, il 26 settembre del 1990.
«Il giorno che morirò tu scriverai» gli aveva rinfacciato Elsa.
«Non è vero, il giorno che è morta non ho scritto» la risposta tardiva di Alberto.
Al di là e oltre l’epilogo della loro storia, questa frase suona come una potente dichiarazione d’amore, per uno come lui che viveva per narrare ed era solito dichiarare: «io ho una sola religione la letteratura».
Quel gelido 25 novembre del 1985, Alberto Moravia non aveva potuto scrivere neanche un solo rigo.
Giusy Gatti Perlangeli