
Qualche anno fa, sulla Gazzetta del Mezzogiorno, lessi la recensione di una raccolta poetica delle Rime di Isabella di Morra curata da un critico letterario, Tobia R.Toscano. Non avevo mai sentito parlare di questa poetessa italiana. Ho fatto qualche ricerca. Mi ha affascinato la sua poesia e la sua storia. Da allora l’ho inserita nel mio programma di Letteratura, a scuola.
Isabella&Diego forever
Potrebbe sembrare il suggello di una storia d’amore scritta col pennarello sulle pareti del bagno di un liceo
In effetti, i sentimenti sono così: al di là del tempo e dello spazio.
Non si tratta, però, di due studenti di una ipotetetica…3^A.
Perché lei, Isabella, appartiene ad un’epoca remota, il Cinquecento.
E lui, Diego, è il nobile spagnolo con cui aveva intessuto una fitta corrispondenza in rima.
Il primo aspetto curioso è che lo sfondo in cui la vicenda si svolge, è un contesto geografico molto vicino al nostro: l’entroterra della Basilicata, Favale, l’odierna Valsinni.
Il secondo elemento di interesse sta nel fatto che la storia sia ignota ai più. Non ve n’è traccia nelle antologie scolastiche (almeno in quelle che ho consultato), né il nome di Isabella viene affiancato a quello delle più note poetesse sue contemporanee, Vittoria Colonna (1490-1547) e Gaspara Stampa (1523-1554).
In verità, la storia di Isabella&Diego era stata portata alla luce, nel 1929, niente meno che da Benedetto Croce, che ebbe il merito di ritrovare il Canzoniere della giovane lucana.
“…Ed io ho voluto recarmi nei luoghi nei quali fu vissuta questa breve vita e cantata questa dolorosa poesia; in quell’estremo lembo della Basilicata, di cui ci ha parlato il Lemormant, tra il basso Sinni e il confine calabrese, tra la riva del mar Jonio, dove verdeggia la foresta di Policoro, e il corso del Sarmento, che versa le sue acque in quel fiume: un pezzo della Magna Grecia e della regione detta la Siritide (…)ero tratto, come suole, dal desiderio di un più sensibile ravvicinamento ai casi del lontano passato per mezzo delle cose che vi assistettero muti testimoni, e che non sono, o assai poco, cangiate nell’aspetto, e sembrano svegliarne o prometterne la più vivace evocazione”: così scrive lo stesso Croce.
Era il 1528 e una giovane donna, Isabella, figlia del barone Giovan Michele Morra, signore di Favale (l’attuale Valsinni) si apprestava, inconsapevole, a subire le tragiche conseguenze della guerra con la quale Francia e Spagna si contendevano l’egemonia del mondo.
Erano i tempi di Francesco I e Carlo V.
Suo padre, abbracciata la causa della Francia, si ritrovò perciò, dalla parte di vinti e fu costretto a rifugiarsi a Parigi.
A Favale, nel castello arroccato alle falde del Pollino, restavano la moglie e sette degli otto figli, tra cui Isabella, la terzogenita, nata probabilmente intorno al 1520.
Sensibile e delicata, Isabella si era formata coltivando la lettura dei classici e del Petrarca, e inveiva contro “l’empia Fortuna”, mentre la sua giovinezza sfioriva, vinta dall’ostilità del luogo e dei tempi.
Disperatamente, consegnava ai fogli bianchi, la confessione della sua sofferenza, l’alternarsi delle illusioni e delle laceranti speranze, puntualmente deluse.
Non le rimaneva che la rassegnazione cristiana e il canto del proprio dolore attraverso la poesia.
Ma Amore, si sa, lancia i suoi strali proprio nel momento in cui si è pronti alla rinuncia.
Quando Isabella sembrava ormai acquietata, forte della raggiunta pace religiosa, al suo ristretto orizzonte apparve l’affascinante trovatore spagnolo Diego Sandoval de Castro, sposato e padre di tre figli, governatore di Taranto e signore della vicina Bollita (attuale Nova Siri).
In realtà fu il suo precettore che, “galeotto”, spinto dall’affetto e dalla pietà per il suo destino di solitudine, favorì la conoscenza e la corrispondenza di Isabella con Diego, il quale, appreso della triste condizione della giovane, per alleviare le sue pene, le inviava lettere e componimenti poetici firmandoli con il nome della moglie, Antonia Caracciolo, con la quale sicuramente Isabella era in contatto.
Non si sa con certezza se tra i due ci sia stata una vera relazione amorosa o semplicemente una corrispondenza poetica. Certo è che strane dicerie giunsero alle orecchie dei fratelli di Isabella, i quali, associando ai motivi di “onore” quelli politici, concepirono ed attuarono una sanguinosa vendetta.
Infatti, secondo una cronaca di famiglia pubblicata nel 1629, scoperto il precettore mentre consegnava ad Isabella alcune carte di Diego Sandoval, lo assassinarono nell’autunno/inverno del 1545.
Venuto a conoscenza del misfatto, Don Diego si procurò una scorta che lo proteggesse, ma i fratelli di Isabella gli tesero un agguato nel bosco di Noia (l’attuale Noepoli) e uccisero anche lui.
Poi, in un moto di rabbia, tornati a casa, colpirono a morte Isabella.
Grazie a Benedetto Croce, ci è pervenuto il Canzoniere di Isabella, tanto breve quanto intenso e originale rispetto agli altri contemporanei.
Composto di dieci sonetti e tre canzoni, fu ritrovato dalla polizia spagnola, tra le carte della giovane assassinata.
La fama sopraggiunse ben presto, perché il nome di Isabella cominciò subito a circolare, “sexum superando”, come dice il nipote Marcantonio, cioè superando i limiti e gli ostacoli legati alla condizione femminile.
Sicuramente quella di Isabella di Morra è una delle voci più originali della lirica cinquecentesca italiana.
I suoi versi anticipano cadenze tassiane e leopardiane.
Come il poeta recanatese, nelle sue opere Isabella compie una trasfigurazione lirica del paesaggio, che diventa partecipe dei suoi stati d’animo, e la tragicità e la potenza delle immagini con cui esprime il suo tormento sono analoghe a quelle presenti anche nelle liriche del Tasso.
Ella definisce “denigrato sito”, il castello paterno, collocato a picco sul mare, “sull’infelice lito”, sotto la tutela dei fratelli rozzi, incolti e sempre più imbarbariti nel loro isolamento, che la detestavano e la tenevano segregata nel sinistro maniero.
Non si può non sentire l’eco dei suoi versi nel “natìo borgo selvaggio”, piuttosto che nel “paterno ostello”, citato in A Silvia.
E la serie di coincidenze tra i due poeti potrebbe continuare.
Entrambi sono nobili di nascita, soffrono la solitudine e vedono scivolare via inutilmente la giovinezza;
sia Isabella che Leopardi hanno in un monte il loro punto di riferimento e da lì guardano il mare;
entrambi si sentono prigionieri in due paesini della provincia, che li tagliano fuori dalla civiltà.
E ancora se Isabella scrive “fra questi dumi/fra questi aspri costumi/ di gente irrazionale, priva d’ingegno/… senza sostegno/sono costretta a menar il viver mio”, Leopardi sembra farle eco: “Né mi diceva il cor che l’età verde/ sarei dannato a consumar in questo/natio loco selvaggio, intra gente/ zotica, vil…”
Non a caso è stata definita la “Saffo” lucana.
Consiglio la lettura del suo breve Canzoniere a tutti coloro che, giovani o meno giovani, serbano ancora nel loro cuore un cantuccio per il romanticismo.
E se avrete voglia di una gita “fuori porta”, raggiungete il Parco Letterario di Valsinni a lei dedicato.
D’un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s’alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.
Ma la mia adversa e dispietata stella
non vuol ch’alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma, di pietà rubella,
la calda speme in pianto fa mutare.
Ch’io non veggo nel mar remo né vela
(così deserto è l infelice lito)
che l’onde fenda o che la gonfi il vento.
Contra Fortuna alor spargo querela,
cd ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento.
(Rime III).
Isabella&Diego forever
Tobia R.Toscano, DIEGO SANDOVAL DI CASTRO, ISABELLA DI MORRA.RIME, ed. Salerno (pagg.187, €18,50)
http://www.parcomorra.it/
Giusy Gatti Perlangeli