Un viaggio chiamato Amore – Sibilla & Dino (seconda parte)

Quando conobbe Dino Campana, Sibilla, già famosa per aver pubblicato il romanzo autobiografico “Una donna”, era considerata la donna più bella d’Italia. Lui fu subito attratto da lei. Libera, spregiudicata, al di là dell’ipocrisia del perbenismo borghese, spesso “faceva il primo passo” con gli uomini. Era una donna che cercava di colmare le carenze affettive, derivate “in parte da mia madre e in parte dalla perpetua nostalgia di mio figlio”, attraverso le numerose relazioni con letterati ed intellettuali. 

“Non mi parli del suo impegno sociale, non mi racconti del socialismo – le scrisse la prima volta Dino Campana –  Mi interessa lei. La passione e niente altro, tutto il resto è fuori, tutto il resto viene dopo, non importa quando”.
“Vogliamo intanto vederci per un giorno a Marradi? – gli rispose Sibilla –Se non v’annoia troppo, se non siete troppo lontano. Io potrei venire, mettiamo, mercoledì o giovedì, col primo treno (8,55) e voi dirmi dove m’aspettereste. Credo che ci si riconoscerebbe facilmente. Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a quelli che bisogna ignorare. Uomo diffidente!” 
Era stupito, Campana, che quella donna, attraente e famosa, mostrasse interesse per lui, giovane poeta squattrinato, dallo stile di vita bohemien.
 Inquieto da sempre, incapace di stabilirsi in un luogo preciso e di instaurare relazioni durature, aveva girovagato a lungo, in Argentina, in Ucraina, e poi in Italia, adattandosi ai mestieri più disparati, come il pompiere, l’operaio, il poliziotto, il fabbro, il pianista…

Invece lei, affascinata dalle sue prime lettere, si organizzò per raggiungere Dino, “Cloche”, come talvolta il poeta amava firmarsi.
          La passione d’amore tra i due fu istantanea.
Lei gli scrive:           
“Perché non ho baciato le tue ginocchia?
Avrei voluto fermare quell’automobile giù per la costa, tornare al Barco a piedi, nella notte, che c’è il tuo petto per questa bambina stanca.
Tornare. Come una bambina, questa del ritratto a dieci anni.
Non quella che t’ha portato tanto peso di storie di memorie affannose, che t’ha parlato come se stesse ancora continuando il suo povero viaggio disperato, come se non ti vedesse, quasi, e non vedesse lo spazio intorno, le querele, l’acqua, il regno mitico del vento e dell’anima Tu che tacevi o soltanto dicevi la tua gioia.
Sentivi che la visione di grandezza e di forza si sarebbe creata in me non appena io fossi partita? Nella tua luce d’oro. E non ho baciato le tue ginocchia.
I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il ciclo.
Non ho saputo che abbracciarti.
Tu che m’avevi portata cosi lontano. Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu non hai bisogno di me!
È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere insieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima.
Dino, Dino! Ti amo.
Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo. Non so, ho paura.
È vero che m’hai detto amore! Non hai bisogno di me.
Eppure la gioia è cosi forte. Non posso scriverti. Verrò il 19. dovunque. Il 14 resterò qui; a Firenze andrò poi per un giorno. Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? Scrivimi”
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] domenica-lunedi [6-7 agosto 1916]
 
E ancora, solo un mese dopo
“Dino, Dino, Dino.
Come fare, senza dirti che t’adoro, a mandarti qualche piccola parola che brilli e t’accarezzi più delle stelle? Le stelle intorno alla Casetta. Il sole della Bastia che m’ha fatto brune le mani.
Dino, Dino.
Ricordati, quando chiederai a tua Madre quel tuo ritratto che mi piacerà, di dirle ch’è per una donna felice.
Tengo in petto, tutta per noi soltanto, la nostra gioia, la nostra malinconia, la nostra forza. La vita è per noi, Dino, lo sento senza un attimo mai di sosta o di dubbio.
Che senso di discesa l’altra sera tornando in città! Ma ripartirò fra poco, sai! E mi porterai sul mare (avevano già progettato una vacanza a Marina di Pisa)
Con tanta fede, se vedessi come tremo, qui, piccola cosa silenziosa, tua…
Dimmi che nel letto grande dormi un sonno buono. (Per giovedì ti manderò notizie e quel che ancor non m’è giunto ma non può tardare. Delle traduzioni che ti lasciai, io ho dovuto fare, con altre, quella doganale: la napoleonica è per l’altro numero. Chissà oggi come ti sarai seccato, mi perdoni?).
Amato. Vedimi. Son la creatura più ricca, più forte, più bella se ti guardo e se mi baci con amore”.
[Firenze, 15-17 settembre 1916]
(2- continua…)

Giusy Gatti Perlangeli