Gabriele D’Annunzio. Il fuoco che consumò la Duse

Un’epoca bella, travagliata e vivace quella fin de siécle dell’800. E Roma, è il suo centro nevralgico, il luogo in cui tutto nasce e tutto si consuma. Uno scenario alla Sorrentino, un’atmosfera decadente dove la vita culturale e mondana s’intrecciano tra i marmi dei palazzi, i broccati dei salotti e le vie eleganti della Capitale.

Gabriele d’Annunzio era arrivato nel 1881 dall’Abruzzo per frequentare la facoltà di lettere e filosofia, ma subito si immerge con tale entusiasmo negli ambienti letterari e giornalistici romani, da trascurare gli studi universitari. Collabora con prestigiose testate: «Capitan Fracassa», «Fanfulla della Domenica». Tiene delle rubriche fisse, protagonista e paparazzo a un tempo della “dolce vita” capitolina: le donne leggono avidamente i suoi articoli. Descrive le loro toilette, anzi, molte esponenti della Roma-bene, si vestono proprio con l’intento di suscitare l’interesse del giovane dandy, affinchè lui le “recensisca” nelle sue cronache.

Proprio nelle vesti di cronista mondano della «Tribuna», nel 1882 incontra per la prima volta Eleonora Duse. Lui ha già tre opere pubblicate all’attivo, è giovane e noto, ma non è certo quel che si dice un bell’uomo. Più basso di lei, sembrava non avesse i numeri per sollecitare l’interesse della Divina. «È piccolo – scrive Gide – da lontano la sua figura parrebbe ordinaria o già nota: non c’è nulla in lui che ostenti letteratura o genio. Porta una barbetta a punta di un biondo pallido e parla con voce nitida un po’ gelida, ma morbida e quasi leziosa. Ha uno sguardo freddo, forse un po’ crudele ma probabilmente è l’apparenza della sua delicata sensualità a farmelo apparire tale».

Lei «è molto più che bella. D’un pallore opaco e un po’ olivastro, la fronte solida sotto le ciocche nere, le sopracciglie serpentine, i begli occhi dallo sguardo clemente, una bocca grande, pesante nel riposo ma incredibilmente mobile e plastica[…]. La voce è chiara e fine» la descrive il critico Jules Lemaitre.

Ma già a quell’epoca, il fascino del futuro Vate si è reso evidente, anche attraverso indiscutibili doti affabulatorie. La prima volta che la vede, le fa delle avances esplicite. Lei è sdegnata, ma segretamente compiaciuta tanto che così lo descrive in quel giorno: «Già famoso e molto attraente, con i capelli biondi e qualcosa di ardente nella sua persona».

Roma, Teatro Valle, 1888. Un’affranta Eleonora, nei panni di Margherita Gautier appena morta di tisi sul palcoscenico ne “La signora delle camelie”, si avvia verso il suo camerino. Dalla penombra del corridoio sente una voce che, con entusiasmo, l’apostrofa: «O grande amatrice!» Il giovane, esile ed elegante, è Gabriele D’Annunzio.

Nel giugno 1892 D’Annunzio le fa pervenire un esemplare delle sue «Elegie romane» con dedica “Alla divina Eleonora Duse”. Lei aveva letto «L’innocente» e ne era rimasta colpita, anche perché nella storia dei tradimenti di Giuliana e Tullio Hermil, protagonisti del romanzo, rivede in parte la propria vicenda coniugale. Si è separata dal marito Tebaldo Checchi (suo collega di lavoro nella Compagnia Città di Torino e padre della figlia Enrichetta) ed ha sofferto per il distacco dall’amante Arrigo Boito (personalità di primo piano della Scapigliatura milanese e stimato librettista di Giuseppe Verdi). Così nasce in lei il desiderio d’incontrare il poeta. E’ pronta ad abbandonarsi «alla presa di quegli occhi chiari, si sorprende a dimenticare tutta la sua amara sapienza della vita e a godere della lusinga che essi esprimono».

Ma la loro relazione, secondo i biografi, avrà inizio solo il 26 settembre del 1895 e, tra alti e bassi, strazianti addii e impetuose riconciliazioni si protrarrà per più di otto anni.

Dopo aver letto «Il trionfo della morte», l’attrazione della Duse per D’Annunzio diventa morbosa. Prova per lui attrazione e repulsione a un tempo. Lo definisce il “Poeta infernale”. «Preferirei morire in un cantone piuttosto che amare un’anima tale. D’annunzio lo detesto, ma lo adoro» confida proprio all’ex amante Arrigo Boito.

Le potenzialità del poeta in ambito teatrale sono tutte da scoprire. Lei è stanca di interpretare il repertorio tradizionale che pure l’ha resa celebre. E’ insofferente nei confronti della vita girovaga che l’ha portata nei più grandi teatri del mondo e non vuole più stare sola. S’incontrano all’Hotel Danieli di Venezia, ed Eleonora sperimenta subito in D’Annunzio lo straordinario incantatore che tutti conosciamo. Lui la investe dolcemente di parole che la affascinano. Si separano, per incontrarsi qualche mese dopo all’Hotel De Russie a Firenze.

La passione esplode fragorosa. Ma la mattina seguente lui riparte per Pescara, lei per l’ennesima tournée. Si scambiano lettere appassionate. Quelle di lui non esistono più, bruciate, pare, dagli eredi della diva dopo la morte di lei. Invece, quelle di Eleonora, “Testimone Velata” nell’Officina del Vate, sono ancora conservate negli archivi del Vittoriale. Sono lettere infantili, spesso sgrammaticate, forse vergate nella foga di momenti di passione, a cui l’inchiostro e il pennino non riescono a tenere dietro. La tisi che mina la salute della diva si fa sempre più visibile e fastidiosa. Si notano le interruzioni del segno, dovute forse ai colpi di tosse improvvisi e sempre più frequenti, all’inevitabile insonnia. «Je vous ecrit à Pescara trop souffrant de votre silence, j’ ai telegraphiè la bas, je suis triste à mourir, ma vie est trop dur et vous ete loin, je vous parle moi continuellment».

Andranno a vivere insieme nella zona di Settignano, vicino Firenze: lui affitterà la villa “La Capponcina” trasformandola nella degna cornice decadente del “signore rinascimentale, fra cani, cavalli e belli arredi”.

Il gioco delle parti, come in teatro, ha scomposto i pezzi. Lei è diventata l’amante fedele che vive aspettando fremente un cenno dal suo uomo; lui ricambia il sentimento d’amore, ma asseconda i capricci del momento. Non si sa mai dove va, chi frequenta, quando tornerà. «Dove vai?»– gli chiede Ghisola (come lui soleva chiamarla) quando lo vedeva, vestito di tutto punto, montare a cavallo. «Sempre alla ventura», risponde lui. «Ma da che parte?», «Non dimandare», risponde enigmatico.

«Per la via vecchia fiesolana», scriverà D’Annunzio nel «Libro Segreto»: «Scendevo al cancello di una villa chiusa in bossoli esatti dove m’attendevano le due sorelle suonatrici di virginale e di liuto, esperte in giochi perversi… Rientravo dopo tre ore, impaziente. Dal viale chiamavo l’unica mia compagna, gridavo l’amore col più tenero dei nomi: Ghisola, Ghisolabella! Gettando la briglia balzavo su la ghiaia. Ghisola! ero folle di lei, oblioso, incolpevole. L’infedeltà fugace dava all’ amore una novità inebriante: la sovrana certezza. “Ghisola, Ghisola, ti amo, ti amo, e per sempre te sola”»

Eleonora è soggiogata dal fascino di quell’uomo traditore. E’ felice dei suoi abbracci, dell’impeto d’amore che li sconvolge, ma è tormentata dal dubbio che si fa certezza. Annusa addosso a lui profumi estranei e sospetti, si chiede se lui la trova ancora attraente, con quei cinque anni in più che lei percepisce come un abisso tra loro. Finisce quasi per giustificare l’ansia che porta il poeta verso altre distrazioni e non gliele rinfaccia, né lo rimprovera.

Lui si è spesso pronunciato nei confronti della fedeltà in amore: «Non v’è menzogna sillabica più confusa e più diffusa di questa: la fedeltà. Ha il suono scenico delle false catene Non v’è coppia fedele per amore. Io sono infedele per amore, anzi per arte d’amore quando amo a morte».

«Perdonami anche questo – gli scrive Eleonora – cioè di sentire solamente la mia gioia quando ti sono vicina, poichè gioia io a te non so darne. Io sono la tua poveretta». Lo gratifica, denigrando se stessa e il suo talento d’attrice: «ma il genio quale sei tu… Ahimè so bene che l’artista che esegue l’opera d’arte non è l’opera d’arte». Lei lo mantiene economicamente, ma sta bene attenta a non farglielo pesare: piuttosto umilia se stessa, pur di non far sentire umiliato lui.

Lui la ama, a modo suo. La vuole sempre lì, fedele e disponibile: «Voglio possederti come la morte possiede – scrive nel «Libro Segreto» – voglio raccoglierti come un fascio spicanardo legato con un vimine (…) E poi voglio disperderti, soffiare sopra te e disperderti come il tarassaco si disperde al vento, disperderti alla rosa dei venti, discioglierti nel Gran Tutto – Pan».

Negli anni della relazione con la Duse, D’Annunzio è prodigiosamente prolifico. Compone «La città morta», il «Sogno d’un mattino di primavera» e il «Sogno d’un tramonto d’ autunno», «La gioconda», «La Gloria», più tre Libri delle «Laudi», poi «Il fuoco», «Francesca da Rimini», «La figlia di Iorio», con l’aggiunta del rifacimento di «Canto Novo», dei «Sonnets Cisalpins» e della revisione dei racconti giovanili in vista delle «Novelle della Pescara».

Eleonora viene invitata a Parigi e accolta come una regina, eppure non è felice, «Io non saprò mai dirti quanto questo esilio m’ è parso crudele. Quanta forza per vivere contro la propria forza!» Solo gli applausi del pubblico la consolano dei lunghi silenzi dell’amato «Tutta una settimana son rimasta come fossi sott’acqua».

Poi arriva una lettera di Gabriele e la gioia le esplode nel petto «Ti ringrazio, ti ringrazio, mi son buttata sulle tue parole. Sto di nuovo meglio. Sei buono, grazie. Purchè nulla ti turbi, purchè tu ritrovi la gioia di lavorare».

Tutta immersa nella cecità della sua gratitudine e del suo amore, Eleonora è del tutto all’oscuro del fatto che il poeta non la tradisce solo sul piano sentimentale, ma anche su quello artistico. Assegna infatti i suoi testi teatrali ad altre attrici dopo averli promessi a lei che, come sempre, si era adoperata per trovare i finanziamenti, il teatro, gli attori. Affiderà la parte della protagonista del dramma «La città morta», scritta proprio per la Duse, che doveva debuttare a Roma, all’attrice francese Sarah Bernhardt, spostando il debutto a Parigi. Quando Eleonora lo apprende, si fa forza per nascondere il dolore e la ferita narcisistica. Ancora una volta perdona Gabriele. Conosce le sue fragilità di uomo che vuole sentirsi vincente a tutti i costi e non gli si oppone, continuando ad amarlo incondizionatamente.

D’Annunzio comincia a mostrare segni d’insofferenza. Questo sentimento invadente lo opprime e lo annoia. Vivono ancora insieme quando lui scrive «Il fuoco»: nel romanzo la Duse è dipinta nel personaggio de La Foscarina, una bella donna non più giovane che ama il protagonista, Stelio Effrena, fino all’annullamento di sé. Lui non si fa scrupoli nel descrivere con crudeltà «lo sfacelo fisico» della sua compagna.

Eleonora è malata e, in più, si vede portar via la parte di Mila di Codra ne «La figlia di Iorio», scritta da D’Annunzio “per lei e accanto a lei”, dalla giovane Irma Gramatica. Griderà in una lettera «Tu m’ hai accoppata – e con che arte – la tua!»

E’ la fine.

Tuttavia D’Annunzio non rimarrà solo. Eleonora sarà sostituita non solo sulla scena, ma anche nella vita, definitivamente questa volta. Il poeta si innamorerà della marchesa Alessandra di Rudinì, figlia dell’ex presidente del Consiglio, ventiseienne, bellissima, vedova con due figli. Gabriele la chiamerà Nike. Ma Alessandra, la vittoriosa, avrà su di lui una pessima influenza: verrà infatti sopraffatto dai debiti, rallenterà di molto il ritmo della sua produzione artistica per accontentare una moglie capricciosa, possessiva e noiosa.

“Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato”, lascia scritto Eleonora.

All’età di 66 anni, il lunedì di Pasqua del 1924 la Divina muore di tubercolosi. Sola.

Ormai anziano, alla notizia della morte di Eleonora, pare che il Vate abbia mormorato «È morta quella che non meritai»

DENIS MACK SMITH, L’ITALIA DEL XX SECOLO, VOL. I (1899-1908) TOMO I, RIZZOLI, 1977 ANNA MARIA ANDREOLI IL VIVERE INIMITABILE, MONDADORI, 2001 GIORDANO BRUNO GUERRI, D’ANNUNZIO, L’AMANTE GUERRIERO, MONDADORI, 2008

Giusy Gatti Perlangeli