Gli ultimi studenti tornano tra i banchi. Impressioni di settembre 2.0

Non tutti in Italia considerano quello dell’insegnante un lavoro “prestigioso”, come, ad esempio, quello del notaio, dell’avvocato, del medico, dell’imprenditore. “Solo 18 ore settimanali”, tre mesi di vacanza, tutte le feste comandate…

No, non è considerato un lavoro “prestigioso”, come quello del notaio, dell’avvocato, del medico, dell’imprenditore. Ma di fronte a me, tra i banchi, siede il figlio del notaio, dell’avvocato, del medico, dell’imprenditore. E con loro, il figlio dell’operaio, dell’impiegato, del contadino, dell’artigiano, dell’ambulante, del disoccupato. Siede il figlio che un padre non ce l’ha più, e vede la mamma sgobbare tutto il giorno per comprargli libri e computer. Ma anche il figlio senza genitori, quello della casa-famiglia… No, non è un lavoro che tutti considerano “prestigioso”.

Tuttavia, ogni mattina, i miei colleghi ed io, entriamo in aula regalando a tutti un sorriso e cerchiamo di dare al figlio dell’operaio, dell’impiegato, del contadino, dell’artigiano, dell’ambulante, del disoccupato, al figlio senza padre, all’orfano, all’abbandonato, come al figlio del notaio, dell’avvocato, del medico, dell’imprenditore, tutto quello che siamo e tutto quello che sappiamo. A tutti, le stesse possibilità di emergere di farsi strada, di diventare, attraverso la cultura (che per noi non è “scienza infusa”, ma frutto di applicazione, quotidiana e profonda), persone migliori. E’ iniziato un nuovo anno scolastico e per me ha ancora il fascino del viaggio, dell’avventura, di un’esperienza che si rinnova sempre e che non può lasciare posto alla routine e all’indifferenza annoiata. Fare l’insegnante in una scuola come quella in cui “insegno e imparo”, poi, è una sfida nuova, diversa da quella che si può fare in qualsiasi altro istituto, con un Dirigente che ha investito se stesso perché diventasse un’eccellenza nel territorio e capofila di una rivoluzione 2.0, travolgente e inarrestabile, che ci ha coinvolti come un tornado da cui ci siamo lasciati trascinare.

Abbiamo “riveduto e corretto” il nostro modo di essere insegnanti: lo studente al centro, come dev’essere. Una scuola in cui si sia capaci di incuriosire, di dire sempre qualcosa di nuovo e di porre le basi per una cultura ampia e sicura, da cui poi decollare verso le mete che ciascuno si prefigge di raggiungere, individuate con nostro aiuto di ogni giorno. I ragazzi, oggi, arrivano a scuola “imparati”: non ci si può limitare a dir loro che devono studiare, che nessuno ti regala niente e che si devono impegnare.

Lo sanno, e sono tutti un po’ allergici ai doveri e alle imposizioni. Vogliono qualcosa di nuovo, qualcosa che li stravolga e cambi loro la vita per sempre. Vogliono PASSIONE. Vogliono avere la sensazione di non trovarsi lì, tra i banchi (che da noi nelle prime classi già non ci sono più, sostituiti da moduli ergonomici tutti colorati), perché devono assolvere all’obbligo scolastico o comunque terminare un curricolo: vogliono sentire che ne vale la pena alzarsi la mattina presto e, zaino in spalla, mezzi assonnati, venire a scuola ogni giorno, per un anno intero. Vogliono che la scuola dia loro strumenti per leggere la vita con più chiarezza, per affrontarla con consapevolezza e maturità. Vogliono verificare se le parole, gli argomenti, i dati con cui noi docenti li sommergiamo ogni giorno, ottenuti a prezzo di anni e anni di studio “matto e disperatissimo”, ci riempiono davvero la vita, se sono “la nostra passione”. Vogliono che diciamo loro che senza “i saperi” che trasmettiamo, la vita sarebbe più opaca e meno affascinante, che siamo mediatori di qualcosa di unico e indispensabile. Ci guardano negli occhi: vogliono intravedere una luce, l’emozione nelle parole che pronunciamo, lo stupore nel riscoprirle con loro, ogni giorno. Se non ci crediamo noi, perché dovrebbero farlo loro? Vogliono sentire i brividi del Fanciullino di Pascoli, il tormento nei versi di Petrarca…

Vogliono ridere con le novelle di Boccaccio, riscoprire il genio di Leonardo e l’immensità di Dante. Ricostruire le tattiche di guerra di Napoleone, parteggiare per gli umili, i vinti, gli oppressi e i rivoluzionari. Sentire che la guerra è una cosa sporca perché rende l’uomo “quello della pietra e della fionda”. Vogliono imparare ad amare gli articoli della Costituzione… Non vogliono una scuola divertente, ma una scuola coinvolgente, affascinante, interessante, fatta di ore, giornate da non perdere. A loro non interessano i contratti, le Quote 96, quanti anni ci mancano alla pensione, se il sistema è retributivo o contributivo. E tuttavia sono pronti a lottare se una riforma lede i loro diritti, ma si aspettano di farlo in un ambiente in cui sono tutti dalla stessa parte e concorrono per un unico fine. Gli studenti vogliono essere sfidati, messi alla prova: vogliono dimostrare di avere qualità, di essere individui unici e irripetibili, capaci di pensare, di valutare e anche giudicare. Non si accontentano di stereotipi e luoghi comuni, ma desiderano imparare ad essere liberi nel pensiero attraverso l’educazione alla libertà. Vogliono farci vedere che quello che abbiamo trasmesso loro si è trasformato, dialetticamente in una sintesi superiore, un pensiero nuovo, più grande di quello da cui sono partiti, gravido di nuove intuizioni…

Vogliono che insegnamo loro a prendere le misure e aiutarli a trovare il loro posto nel mondo che li circonda, ma senza spegnere la loro creatività e, soprattutto, la loro voglia di sognare. Credo che, dopo tanti anni, è questa la scuola che gli studenti vogliono, una sana mediazione tra tecnologia e innovazione, che parli il loro linguaggio, ma gliene insegni uno migliore. Una scuola che porteranno nella testa e nel cuore, che potranno raccontare ai loro figli come il periodo più strepitoso della loro vita. Il nostro lavoro “non prestigioso”, di cui molti ricordano solo i tre mesi di vacanza (autentica leggenda metropolitana), ha un senso per la traccia indelebile che lascia nell’anima del figlio dell’operaio, dell’impiegato, del contadino, dell’artigiano, dell’ambulante, del disoccupato, del figlio senza padre, dell’orfano, dell’abbandonato, come in quella del figlio del notaio, dell’avvocato, del medico, dell’imprenditore. E penso che il mio lavoro, ritenuto da alcuni, “non prestigioso”, è il più bello del mondo e ritengo sia un vero privilegio poterlo svolgere ogni giorno. Non potrei fare altro. Non saprei fare altro. Buon anno scolastico a tutti.

Giusy Gatti Perlangeli