Alcuni decenni sono trascorsi dai tempi in cui, alunna di terza media alla “Giulio Cesare”, sentii per la prima volta nella mia carriera scolastica, una professoressa che si rivolgeva a me e alle mie compagne (le classi miste erano una rarità) dandoci del “lei”.
Lei, “la Paladini Ferrante”, storia e geografia!
Rometta Paladini Ferrante era un’insegnante tutta d’un pezzo.
“Mi spezzo, ma non mi piego!” soleva ripetere, quando la 3^D, classe di adolescenti inquiete, la metteva in condizione di dover ristabilire l’ordine.
Credo che mai più, né prima né dopo, io abbia trovato, seduta in cattedra, una persona come lei.
Sembrava volesse creare tra noi e lei una distanza abissale (dava del lei anche alle undicenni di prima media)…eppure mai ho sentito un’insegnante così vicina.
Era una donna “old style” nell’aspetto: i capelli raccolti in uno chignon, che più poeticamente in classe veniva definito “il tuppo”, gli abiti severi, gli occhiali con la montatura in osso.
Il kit completo della “signorina Trinciabue”…
E invece, sola tra tutti i docenti che il caso aveva voluto finissero nella nostra sezione, era capace di gratificarti al punto che avresti fatto qualunque cosa pur di ricevere la sua approvazione.
Tutto sommato, nella scuola media non avevo trovato ancora nessun motivo d’interesse che non fosse il chiacchiericcio con le compagne, o l’intervallo per la ricreazione.
Gli altri insegnanti facevano il loro dovere, ma niente di più.
Si contavano quanti “dunque” pronunciava “quella” d’italiano, mentre spiegava I promessi sposi, che, in verità, mi apparivano allora di una noia mortale (li ho riscoperti all’università e poi nella pratica quotidiana con i miei alunni di oggi e mi spiego perché la mia compagna di banco, nonché migliore amica, si iscrisse anni dopo alla facoltà di Agraria!).
Le altre materie, fatta eccezione per l’Educazione Artistica, la musica e la ginnastica (ancora oggi, vedo per strada la professoressa Pisani…che nostalgia…), erano scolastiche… troppo per i miei gusti.
Quando arrivò la Paladini Ferrante, col suo armamentario, avemmo un sussulto: e invece la situazione cambiò rapidamente.
Sapeva come valorizzare l’impegno di ciascuna di noi, aveva compreso, in una scuola ancora vecchio stampo, che la gratificazione sollecita l’alunno a impegnarsi di più ed ottenere risultati migliori.
L’amai perdutamente, quando un giorno, dopo avermi interrogato in geografia e avermi dato nove, mi mandò a chiamare in un’altra terza per esporre l’Asia fisica e politica sulla carta murale (che ora è rarissimo trovare in una qualsiasi aula scolastica).
Fu l’apoteosi: da quel momento la scuola cominciò ad avere un fascino sconosciuto prima e il risultato fu che il rendimento generale ne risentì positivamente.
Quel modo di rivolgersi a noi, dandoci del “lei”, anziché aumentare le distanze, avvicinò le nostre menti e i nostri cuori in una sorta di affinità elettiva mai sentita prima, e ha cambiato la mia vita per sempre.
Oggi che non sto più davanti, ma dietro la cattedra (che per me non è una metafora del potere, ma un comodo supporto per la grande quantità di libri e di appunti che mi porto dietro), quella lezione mi torna alla mente.
Ora talvolta capita che, incontrando un alunno nei corridoi, quello sia portato a dire “Ciao!”, anziché un formale “Buongiorno, professoressa!”. Maleducazione? Assolutamente no!
Chissà che invece non sia il risultato istintivo di un rapporto che, un giorno dopo l’altro, sia diventato più umano, amichevole, ma di quell’amicizia che è gratitudine.
Gratitudine per aver ricevuto insieme con i contenuti del “programma”, un po’ di cuore, di quella passione senza la quale quello dell’insegnante è un lavoro come un altro.
Giusy Gatti Perlangeli