
Dal varo della Legge n.211 del 20 luglio 2000 che ha istituito in Italia il Giorno della Memoria, anno dopo anno, noi insegnanti, prepariamo per tempo percorsi didattici che possano lasciare il segno. Il segno della Memoria. E che sia un segno marcato, forte e chiaro, i cui effetti non durino il tempo di una lezione, ma restino per la vita. La creatività dei docenti è straordinaria: le pensiamo tutte per bilanciare orrore e stupore, approfondimento storico ed emozione. Lavori di gruppo, video, powerpoint, documentari, assemblee monotematiche.
Ma quando ci chiediamo se questo basti, la risposta è netta: NO, non basta. E’ servito parlare di Olocausto, di Shoah, da vent’anni a questa parte anno dopo anno? Insistere senza dimenticarsene mai? Lasciare da parte tutto il resto e immergersi in un’esperienza che proprio perché non ci ha toccato direttamente, vogliamo vivere attraverso chi l’ha vissuta? È servito? Non come avremmo voluto. La bulimia delle immagini ci ha sovrastato, annientato, sconfitto. Non c’è stata la reazione che ci sarebbe dovuta essere e ne abbiamo le prove tutti i giorni. Quel “MAI PIU’” che ci piace tanto, che campeggia negli stati dei nostri profili social, rappresenta veramente una presa di posizione autentica?
Il quotidiano La Repubblica lo scorso 30 gennaio ha titolato: “I negazionisti passati dal 2,7% del 2004 al 15,6% e cresce intolleranza verso migranti”. Questa notizia è esplicita: ci dice chiaramente che questi ultimi vent’anni, a noi che viviamo “sicuri” nelle nostre case, che abbiamo visto corpi scheletrici, senza capelli, senza nome, con un numero sul braccio “vuoti gli occhi e freddo il grembo/come una rana d’inverno” evidentemente non sono bastati. “Qualcosa è andato storto”, è sicuro! Il dato di fatto che le intolleranze siano cresciute proprio dove le commemorazioni e le celebrazioni della Memoria sono state intensificate anche per legge costituisce una contraddizione insopportabile.
E allora che fare? Rassegnarsi all’oblìo, cedere inermi che-tanto-non-cambierà-mai-niente? Ma no! Noi ne parleremo, di questo come di altri soprusi, degli eroi e delle persone comuni che ci hanno preceduto e grazie alle quali viviamo in un Paese che, nella sua imperfezione, è luogo di libertà e di democrazia. Ne parleremo finché avremo fiato.
Quest’anno ho voluto far prevalere le parole rispetto alle immagini. Le parole sono terrificanti, non consentono vie di fuga. Inchiodano che le ascolta. Le immagini, se sono troppo forti, portano ad abbassare lo sguardo, a voltarsi dall’altra parte. Con le parole no, questo non si può fare: sono implacabili.
Abbiamo ascoltato in diretta il discorso agli studenti che la Senatrice Liliana Segre ha tenuto al Teatro degli Arcimboldi: parole che atterriscono, parole vive, di carne e di sangue e di neve sporca. “Una gamba davanti all’altra… e io, che ero diventata una lupa affamata ed egoista, perseguitata per la sola colpa d’esser nata, scelsi la vita!”.
Le parole sono pietre: ci siamo sentiti lapidati. In classe un silenzio inusuale: qualcuno ha aperto un quaderno e ha trasformato quelle parole nelle proprie, in un segno, un’emozione che rimanesse scolpita sulla carta. Non rassegnati al silenzio ignavo dell’indifferenza, abbiamo reso nostro quel racconto orribile e senza odio. Io stessa ho aperto il mio taccuino e ho scritto, ho scritto tanto perché restasse. E poi, la sera, ho riascoltato ancora una volta Liliana Segre: e dalle sue, sono nate altre parole, i miei “pensieri verticali” (perché definirli “poesie” mi sembra presuntuoso), e sono nate immagini a vivificare quei pensieri. Filo spinato, farfalle e ancora parole.
Nei giorni a venire ho letto Primo Levi: “Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli (…) Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga (…) Häftling: ho imparato che io sono uno Häftling. Il mio nome è 174.517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro”.
Il 29 gennaio Liliana Segre ha parlato a Bruxelles. Vedere sventolare le bandiere dei paesi membri, salutare dispiaciuta la Gran Bretagna: “Che emozione – ha detto -Io esisto e anche il Parlamento europeo. Non era questo il disegno di qualcuno”. Molti tra i presenti hanno seguito tra le lacrime un discorso memorabile. “Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali – ha detto infine – Che siano in grado di fare la scelta. E con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra ai fili spinati”.
E a quel punto, come un’epifania, ho riaperto il mio taccuino: una settimana prima mentre la ascoltavo, avevo disegnato farfalle. Farfalle di tutti i colori che volano sui fili spinati.