È di questi giorni la notizia che la mondialmente famosa società di Seattle -quella degli oggi 23.768 Caffè aperti in tutto il mondo, di cui 2.705 en Europa- ha finalmente deciso di sbarcare “timidamente” in Italia e di aprire, il prossimo anno, il suo primo locale Starbuks a Milano: come andrà a finire? La decisione della società statunitense -il primo Starkuks aprì il 30 marzo del 1971 a Seattle- è maturata dopo nientepopodimeno che 33 anni da quando, nel 1983, il suo amministratore e ispiratore Howard Schultz decise d’intraprendere l’avventura, dopo aver visitato proprio Milano, rimanendo colpito e intrigato dallo scoprire che in uno stesso isolato erano aperti due o tre o anche più bar: non riusciva a spiegarsi il perché di quel “fenomeno” e decise di osservarlo meglio e da vicino, per studiarne a fondo le peculiarità… e così scoprì un sacco di cose interessanti. Innanzitutto scoprì la grande qualità ed il pregio enorme di una buona tazza di caffè “espresso” -o, e perché no, anche di un cappuccino- servita al bar.
Cosa, quella, che in effetti non richiedeva grandissime doti di osservatore, visto che lui era un americano degli Stati Uniti, un paese in cui -all’epoca- un caffè altro non era che un bicchierone d’acqua calda marrone, quasi sempre servito in un contenitore di cartone con coperchio di plastica, insapore ed inodore, dall’unico pregio di poter servire da scaldamani in una fredda giornata invernale. Ma quella evidente ed ottima qualità, del caffè italiano o del cappuccino, non era per sé sufficiente a giustificare quella peculiarità che più d’ogni altra cosa gli aveva suscitato tanta curiosità: perché tanti Caffè così vicini l’uno all’altro, un fenomeno di fatto diffuso in tutti i quartieri di Milano e… fece presto a scoprirlo, in tutte le città, paesi e paesini d’Italia.
Scoprì quindi qualcos’altro: un semplice “espresso” -in Italia un caffè deve essere sempre “espresso” cioè preparato velocemente e sul momento- può avere un gran numero di varianti: ristretto, lungo, macchiato -con latte caldo o latte freddo o con la panna-, freddo o in granita, decaffeinato, corretto -con grappa o magari con sambuca-, eccetera. Oggi avrebbe anche scoperto l’espressino, il marocchino, il ghiacciato e quant’altro… ma questa d’oggi è, diciamo, probabilmente solo moda.
Ma ancora non ci siamo, neanche queste tante ed interessanti varietà dell’espresso, o quelle dell’ottimo cappuccino, riuscirono a giustificare agli occhi di Howard il fatto strano: quei tanti bar, così numerosi, da essercene alle volte quasi uno affianco all’altro. Ebbene, parte della spiegazione che a suo tempo deve aver finalmente trovato Howard -e per comunque sintetizzare qualcosa che è forse più complicata da spiegare di quello che ci si può immaginare- credo di averla trovata ben esemplificata in un simpatico articolo che ho letto sabato scorso, il giorno di San Giuseppe, sul giornale digitale della BBC, scritto da Dany Mitzman, una giornalista britannica freelance, che da parecchi anni vive a Bologna. «… Se in Italia il vino è la bevanda nazionale, il caffè è la punteggiatura della giornata: il punto esclamativo a prima mattina; la virgola, a mezza mattina; il punto, alla fine del pranzo; i tre puntini, dopo cena.
Vicino casa mia ci sono due bar, uno attraversando la strada, l’atro all’angolo. Quello dell’angolo ha le sedie molto comode e un lampadario veneziano molto elegante. Quello sul marciapiede di fronte, così come lo sono molti bar italiani, è un po’ vecchio e trasandato, però ha un ambiente più familiare e lo considero essere il “mio” bar. Il barista Mimmo, appena mi vede entrare mi saluta con il mio nome e “indulgentemente” mi prepara un cappuccino, nonostante alle volte siano le quattro del pomeriggio: un vero sacrilegio per gli italiani. I suoi clienti hanno visto crescere suo figlio e gli mandano cartoline -molte ancora esposte ben in vista- quando vanno in vacanza.
Lui sa e ricorda sempre molto bene cosa beve ognuno di loro, finanche sa se uno preferisce che il bicchierino d’acqua che accompagna il caffè, deve essere d’acqua liscia o gasata, fredda o a temperatura ambiente. A detta di uno di loro, il barista italiano è una specie di surrogato della madre: gli italiani, dopo la seconda guerra mondiale, dovettero cominciare ad abbandonare la tradizione di far colazione, rigorosamente preparata dalla mamma, in casa e acquisirono quella di farla, frugalmente, fuori di casa. E con ciò il barista italiano diventò, anche, un po’ mamma: amorevole e molto, molto, paziente…» Non so quanto di tutto questo colse Howard a suo tempo, ma quello che è certo è che ebbe molta fantasia, molta intelligenza e, soprattutto, molto coraggio, ma sicuramente ci mise anche il cuore. Schultz, infatti, nel suo libro -per l’appunto intitolato Pour your heart into it- parla con trasporto quasi religioso del “forte aroma sensuale” dell’espresso bevuto in Italia e del “grandioso teatro” che sono i bar italiani.
Ha scritto: “… avvertii la necessità inespressa di romanticismo e senso di comunità… gli italiani avevano trasformato il caffè in una sinfonia, ed era un’esperienza piacevole, la mia Starbucks a Seattle suonava nella stessa sala concerti, ma senza una sezione d’archi…” E certamente l’ebbe dura Haward ad avventurarsi con quelle idee nell’America dei primi anni ’80! Fare, infatti, un caffè di buona qualità, con una ricerca meticolosa della materia prima e un serio studio tecnico in relazione alla tostatura e alla preparazione dell’espresso, non era meta impossibile da raggiungere, ma creare atmosfera, senso di comunità, soddisfare necessità di romanticismo, creare un’esperienza piacevole… era, diciamo, tutta un’altra cosa. Eppure…
Pur trattandosi di una tipica catena di negozi di ristorazione all’americana, proprio come quelle catene inventate appunto dagli americani che oggi ne hanno a bizzeffe, sia a casa loro e sia -ormai- in gran parte del mondo, Starbuks ha la particolarità di non essere costituita da negozi “fisicamente” tutti e sempre identici. Svegliandosi o semplicemente entrando in un Mc Donald, la catena americana per antonomasia, nessuno potrebbe capire in quale Mac Donald è entrato, in quale città americana o in quale nazione del mondo ci si trovi. E così come accade per Mc Donald, lo stesso accade più o meno per tutte le altre centinaia di catene di negozi americani di ristorazione.
Al contrario, gli Starbuks sono, nel fisico, abbastanza diversi tra di loro: ormai sempre più spesso, in una città o quartiere ce ne sono tanti -nel centro di San Francisco un giorno ne contai fino a cinque nello stesso isolato- ed ognuno ha un aspetto fisico diverso, dimensioni e distribuzione degli spazi distinti, una diversa decorazione, un differente arredamento, in una parola: una diversa atmosfera, quasi sempre comunque abbastanza accogliente, calda, comoda e finanche, in certi casi, familiare. Di certo, entrando in uno Starbuks, anche se è quello abituale, non ci si sente salutati per nome, tra l’altro perché la politica della società prevede una continua rotazione del personale.
In compenso, Haward si inventò il dettaglio che prevede, al momento in cui alla cassa si ordina si paga e si riceve lo scontrino, venga chiesto il nome del cliente che il cassiere scrive manualmente sul bicchiere in cui sarà servito il caffè, o il cappuccino, eccetera. Con ciò, il barista “giunto il momento” chiamerà il cliente a voce alta per nome e gli servirà la sua ordinazione: non è proprio la stessa cosa che essere salutati per nome, e comunque, tutto sommato fa anche sorridere. Ma torniamo sul punto “giunto il momento” giacché non si tratta di un dettaglio trascurabile: scordiamoci di trovare in uno Starbuks un barman all’italiana capace di preparare servire e ritirare in meno di cinque minuti una dozzina o più, tra espressi e cappuccini.
I barmans di Starbuks sembrano dei farmacisti all’opera, direi che in media ognuno di loro impiega un tre o quatto o cinque minuti a preparare un’ordinazione e quindi, se c’è un certo afflusso di clienti, meglio fornirsi di una buona dose di pazienza. Ah! Un altro dettaglio, che neanche potrei giudicare positivo: lo standard in Starbuks è servire in bicchieri di cartone, igienicissimi e di ottima manifattura certo, ma pur sempre di cartone. Ma non è tutto qui il problema: mi è capitato, e più d’una volta, che in mancanza di bicchieri di cartone a misura di un espresso, il caffè mi sia stato servito in un bicchierone, anzi nel fondo di un bicchierone, con un risultato molto facile da immaginare. Meno male che -l’ho imparato dopo esser passato per quelle prime sgradevoli esperienze – in quasi tutti gli Starbuks è previsto che sia possibile richiedere -senza costo addizionale- di avere il caffè servito in una normalissima tazza di ceramica.
Uff! Meno male, per me veramente una piacevole e provvidenziale scoperta! E veniamo al dunque, veniamo alla qualità e alla varietà dell’offerta negli Starbuks. Ebbene in quanto a varietà, niente di cui lamentarsi, anzi -per i miei gusti- ce n’è decisamente troppa. E la qualità? Mio figlio che abita a San Francisco e che è un patito del caffè espresso -lui stesso ogni sabato tosta il caffè, che poi preparerà e berrà a casa sua durante la settimana, dopo aver miscelato i chicchi verdi provenienti da minimo tre o quattro tipi di caffè, rigorosamente preselezionati- è assolutamente convinto che il caffè espresso che si serve in Starbuks è di una qualità scadente, e non solo a confronto di un espresso preparato a casa sua o di uno servito in un buon bar italiano, ma anche a confronto di un buon espresso servito in una delle, ormai molte e abbastanza diffuse in California, caffetterie che lui conosce in San Francisco e dintorni: È vero, lo confermo, ho avuto modo di comprovarlo con lui in più d’una occasione, a San Francisco e in molti altri luoghi californiani e anche in alcuni altri stati nordamericani.
Io però sarei un po’ più indulgente con Starbuks a proposito della qualità del suo caffè espresso, se non altro in profondo riconoscimento al suo indubbio e assolutamente determinante contributo alla diffusione della cultura del buon caffè in tutta l’America: senza Starbuks, ne sono assolutamente convinto, in America non sarebbero mai sorti gli ormai numerosi e sempre più diffusi caffè di ottima qualità… prezzo a parte! Tanto per spiegarmi meglio: io non cambierei mai un espresso di Starbuks con “buon espresso” di un bar italiano, e negli Stati Uniti, se non ho a portata di mano una delle buone caffetterie di cui commentavo prima, allora un caffè Starbuks -probabilmente molto vicino- mi appaga la voglia in una maniera, direi, quasi sempre accettabile. E in un qualsiasi altro paese del mondo, americano, asiatico, oceanico, africano ed europeo, uno Starbuks può addirittura rappresentare una salvazione, all’ora di voler bere un caffè dopo pranzo o un cappuccino a colazione: direi che la qualità Starbuks è sempre e comunque una garanzia -utilissima in tanti posti della terra- che la qualità del caffè non scenda al disotto di una determinata linea rossa! Ma ritorniamo all’origine di questo scritto, alla notizia cioè della prevista apertura del primo bar Starbuks in Italia e alla domanda: come andrà a finire? La mia risposta? Chissà, dipende, a Milano?
Una città moderna, europea oltre che italiana, con tanti turisti, con tanti giovani e con tanti stranieri? Eventualmente potrà andare a finir bene… forse! Ma “si”, probabilmente “si”, se lo si vuol presumere dalla personalità del “personaggio” Howard Shultz. Schultz, al quale lo straordinario successo non ha certo offuscato l’intelligenza, ha recentemente dichiarato: «Il primo Starbucks italiano, renderà omaggio alla cultura italiana, avrà un bancone come nei bar italiani e servirà una miscela di caffè creata apposta per i gusti italiani. Sarà un classico, dinamico ed elegante caffè Starbucks, ma in termini di esperienza, di atmosfera e di design, si noterà subito il profondo rispetto che nutriamo nei confronti del popolo italiano e della sua cultura del caffè. Starbucks non arriva in Italia con la pretesa di insegnare a tostare il caffè o a preparare e a consumare un espresso, ma ci arriva con grande umiltà per presentare la nostra interpretazione dell’esperienza del caffè, la cui componente essenziale è quella di creare un senso di comunità, di terzo luogo, tra casa e posto di lavoro». Un buon inizio direi. Auguri Haward, auguri Starbuks!
E dunque non mi resta che completare questo mio scritto con un breve commento sul suo titolo. Anche se è doveroso farlo, credo sia comunque sufficiente un solo flash: sono sicuro, infatti, che in molti tra i Brindisini della mia età ed oltre, hanno per sé di certo ben intuito il collegamento esistente tra i vari ingredienti del racconto “giovani, romanticismo, ambiente, stranieri, viaggiatori, Starbuks, anni ’60 e… Brindisi”.