Ho avuto modo di leggere il rapporto Svimez sul Mezzogiorno. Solo una sintesi, in verità, perché i grafici e le tabelline mi danno a noia. Ma abbastanza per rimanere sconcertato: calo demografico; ripresa dell’emigrazione, specie di giovani laureati o diplomati, verso le zone più ricche del Paese o, addirittura, all’estero; perdita di posti di lavoro; riduzione degli investimenti industriali.
Qualche commentatore ha addirittura parlato di “effetto desertificazione” per il Sud. Ho postato un commento sul tema sulla mia pagina facebook, solitamente molto letta e partecipata. Ma i commenti, in questo caso, sono stati pochissimi. Sembra che di Mezzogiorno nessuno voglia più parlare, neppure i meridionali! Sono lontani i tempi in cui qualsiasi politico inseriva nei suoi interventi un riferimento alla questione meridionale. Non lo ha fatto Renzi, nella sua prima uscita pubblica da candidato alla Segreteria del PD, sollevando un coro di critiche tra gli addetti ai lavori. Non sappiamo le reazioni delle gente comune. Mi viene in mente, al riguardo, una barzelletta: Un politico, durante un comizio, non faceva altro che dire: “per il mezzogiorno faremo questo; per il mezzogiorno faremo quest’altro”.
A un certo punto dal pubblico uno spettatore chiese: “Onore’, per il mezzogiorno abbiamo capito. E per la cena?” Questo per dire quanto una politica meramente assistenzialistica sia oramai nelle corde della gente del Sud. Quello che manca, da sempre, è un progetto organico di sviluppo per il Sud. E sono finiti i tempi degli improduttivi interventi a pioggia, finanziati col debito pubblico. La stessa occasione dei fondi comunitari sembra irrimediabilmente persa, dispersi, come sono stati, tra mille rivoli: sagre e feste paesane, infrastrutture spesso inutili o destinate a rimanere cattedrali nel deserto, finanziamenti ad imprese che sono ben presto scappate col malloppo. Quando addirittura quei fondi sono rimasti non spesi.
Diventa difficile lamentarsi della disattenzione del Governo, più preso da una irrealistica “questione settentrionale”, quando si scopre, per non andare lontani, che a Molfetta si voleva costruire un porto su un letto di ordigni bellici! Anche gli investimenti privati, al Sud, non godono di grandi accoglienze. Spesso ciò che il Governo locale autorizza, gli Enti locali contestano. Il caso più clamoroso, ma solo in ordine di tempo, è quello della TAP (Trans Adriatic Pipeline), la condotta sottomarina che dovrebbe far giungere in Italia il gas proveniente dall’Azebairgian. Che senso ha leggere oggi sulla stampa che il Presidente Vendola è “personalmente” contrario al gasdotto? Quando si hanno responsabilità di governo non si può dare un calcio alla botte ed uno al coperchio. Così è stato anche per il siderurgico tarantino. La politica, poi, non può lamentarsi di essere espropriata delle sue prerogative dalla magistratura quando non esercita il suo ruolo, non decide, avanza dubbi e sospetti, fino a quando un altro potere dello Stato non interviene. Spesso con effetti paralizzanti. E così a Taranto si registra la “tempesta perfetta”. L’ILVA entra in crisi, la Vestas se ne va, il porto comincia a dare segni di cedimento e il Sindaco minaccia le dimissioni. Salvo che il Governo non intervenga. Come? Vi sono progetti, idee, iniziative, pronte e cantierabili?
Ben diversamente seppe reagire Brindisi quando fu la chimica ad entrare in crisi. Chiusura dell’EVC. Chiusura della DOW. Il porto e l’aeroporto interdetti ai normali traffici per la guerra del Kossovo. Ma nessuno si dimise. Amministrazioni locali, Associazioni Datoriali, Organizzazioni Sindacali si misero intorno ad un tavolo e delinearono una strategia a breve, medio e lungo termine.
Fu varato un imponente programma di opere pubbliche, raschiando anche i fondi del barile nel bilancio comunale, facendo incetta di finanziamenti comunitari grazie alla disponibilità di un parco progetti cantierabili e mettendo a frutto i fondi previsti dalla convenzione tra Enti Locali ed Enel, fino a quel momento rimasti inutilizzati in un cassetto. Furono autorizzati nuovi investimenti produttivi, sfiorando l’impopolarità: la centrale a gas di Enipower, la realizzazione dei denitrificatori nella centrale a carbone di Edipower, il revamping della centrale Enel di Cerano e la fabbrica per il riutilizzo del gesso prodotto da quell’impianto, il terminal containers, il rigassificatore. E nel mentre si autorizzavano tutti gli interventi privati da anni in attesa di risposte (i centri commerciali, i piani di lottizzazione Le Ville e Albertini, i villaggi sulla costa) fu delineata una strategia di nuovo sviluppo industriale che prevedeva il riutilizzo degli impianti e delle aree dismesse nel petrolchimico, concordando con il Governo un possibile “accodo di programma sulla chimica” , poi finalmente sottoscritto nell’agosto 2006.
E a Brindisi non si registrarono fenomeni di crisi sociale come invece si rischia che avvenga a Taranto. Certo, quella spinta ad utilizzare al meglio le risorse disponibili oggi sembra venuta meno. Fa specie constatare che dei 30 milioni di Euro stanziati nell’Accordo di programma a beneficio di nuovi interventi industriali ben 12 ne siano rimasti non spesi, per assenza di proposte. Ma da lì bisogna ripartire, a Brindisi come altrove nel Mezzogiorno: dal coraggio di saper decidere, a tutti i livelli, abbandonando la tattica del rinvio che certamente non produce sviluppo e occupazione.
Giovanni Antonino