Correva l’anno 2000. Gli Enti Locali, le Associazioni Imprenditoriali e le Organizzazioni Sindacali, a fronte di ripetute situazioni di crisi aziendali all’interno del polo chimico brindisino, culminate con la chiusura degli impianti della EVC e della Dow Poliuretani Italia, riuscirono a far riconoscere al Ministero delle Attività Produttive l’esistenza di una “vertenza Brindisi”. Si aprì cosi un lungo negoziato che portò alla costituzione di un Osservatorio della chimica e all’apertura di un apposito tavolo di consultazione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, partecipato dagli Enti Locali e dalla Regione.
L’obiettivo era quello di svolgere indagini sistematiche sull’evolversi della situazione produttiva, sulle crisi aziendali e sulle opportunità di rilancio industriale e dell’occupazione nell’area attraverso l’insediamento di nuove iniziative industriali. Questo lungo lavoro preparatorio portò poi, nell’agosto 2006, alla firma dell’Accordo di programma per l’attuazione coordinata dell’intervento nell’area di crisi industriale di Brindisi. Venivano stanziati circa 30 milioni di Euro a beneficio di imprese che si sarebbero insediate nell’area e che avrebbero assunto l’impegno di reimpiegare la manodopera espulsa dal ciclo delle lavorazioni chimiche.
La Regione, a sua volta, stanziava risorse significative per programmi formativi che avrebbero agevolato il riutilizzo delle unità lavorative, nel frattempo poste in Cassa Integrazione Guadagni, in settori diversi da quelli di provenienza. A seguire, e sempre nell’ottica di favorire l’insediamento di nuove attività produttive, nel dicembre del 2007 veniva stipulato l’Accordo di programma per la definizione degli interventi di messa in sicurezza e bonifica delle aree comprese nel sito di interesse nazionale di Brindisi. Sembrava il viatico per rilanciare finalmente il petrolchimico brindisino e per dare una boccata di ossigeno non solo a coloro che erano stati espulsi dal mondo produttivo ma anche a quanti non vi erano mai entrati. Niente di tutto questo in realtà è accaduto.
Buona parte delle risorse stanziate per favorire l’attrazione nell’area di nuovi investimenti sono rimaste non spese per assenza di richieste. Nessuno ha svolto, infatti, quella azione di marketing localizzativo che doveva seguire alla firma degli Accordi di programma. Gli stessi interventi di bonifica dell’area sono rimasti sulla carta, essendosi nel frattempo dilapidata una montagna di tempo per discutere se la perimetrazione dell’area SIN a suo tempo fatta dal Ministero dell’Ambiente rispecchiasse o meno la situazione di inquinamento effettivo e se le soluzioni proposte per la sua bonifica fossero le più idonee o solo quelle più dispendiose. E’ significativo che le prime risorse stanziate, pari a 40 milioni di Euro, serviranno a risanare l’area cosiddetta Micorosa, sicuramente non suscettibile di riuso a fini produttivi attesa la sua inclusione nel Parco delle Saline. E nel frattempo la “vertenza Brindisi” è caduta nel dimenticatoio.
Altre emergenze sono salite sul proscenio ed hanno attratto la attenzione della politica regionale e nazionale. Solo per citare le ultime: la Vestas, la Marcegaglia, la Natuzzi, la Bridgestone, la Bosh, la OM Carrelli. Eppure è da lì, dal recupero e riutilizzo a fini produttivi degli impianti e delle aree dismesse nel petrolchimico che occorre partire se si intende riavviare un programma serio di rilancio del settore industriale nella nostra città. Industria, porto e sistema logistico dovrebbero formare un tutt’uno per attrarre nuovi investimenti anche in un periodo di perdurante crisi economica. Solo il vuoto di memoria che caratterizza la attuale classe politica brindisina poteva far dimenticare che la nostra area industriale è stata progettata, e per lungo tempo ha operato, come una “zona industriale costiera”, che ottimizza compiutamente le possibilità offerte dal trasporto via mare. Con questa caratteristica, la zona industriale brindisina si è proposta come ubicazione ottimale per attività di trasformazione di materie prime provenienti d’oltre mare.
Da un altro punto di vista, l’area industriale di Brindisi si distingue per le sue dimensioni, sia spaziali che occupazionali, e per la sua ricca dotazione infrastrutturale: l’area è dotata di tutti i servizi (energia elettrica, acqua, gas) e di un sistema viario e ferroviario interno che la collega alla viabilità provinciale e nazionale e allo snodo intermodale gestito dalla società Cemat, partecipata dalle Ferrovie dello Stato.
Ogni ipotesi di rilancio dell’area industriale non può che fondarsi sulla concezione dei territori destinati ad attività produttive come “spazio finito”, di cui va incentivato il risanamento ed il riuso. Da questo punto di vista il petrolchimico può svolgere un ruolo determinante, dotato com’è di un molo canale e di tutti i servizi (guardiania, antincendio, biologici, mensa, recapito e corrispondenza, approvvigionamento di acqua, energia, vapore, ecc.), di pensiline, di un parco containers, di una rete ferroviaria interna. Si tratta, allora, di riscoprire una capacità progettuale che sembra andata perduta; di tornare al gioco di squadra con tutti gli attori di un possibile, nuovo, sviluppo industriale; di recuperare un tavolo negoziale col Governo e con la Regione; di instaurare un rapporto di collaborazione con le aziende proprietarie delle aree e degli impianti dismessi, che passi attraverso la loro messa a disposizione gratuita per i nuovi insediamenti, col beneficio di rendere meno costosi i servizi comuni. Mi sembra una sfida che merita di essere colta.
Giovanni Antonino