Brindisi e la sua provincia, un territorio dove il vino è una parte integrante della storia e della tradizione millenaria. Le caratteristiche del terreno e del clima particolarmente favorevoli hanno permesso di conservare per millenni una importante, e per molti versi unica, memoria vitivinicola che risalirebbe addirittura alla civiltà micenea.
Una coltura tramandata nei secoli come un’eredità preziosa: con amore generazioni di contadini hanno conservato e migliorato le tecniche di cura delle vigne, selezionando e rendendo specifiche alcune varietà divenute poi identificative dell’intero territorio, come il Negroamaro, la Malvasia e il Susumaniello. I romani, forse più degli altri, hanno lasciato importanti testimonianze che confermano la qualità e l’importanza del vino brindisino, ricercato e apprezzato in gran parte dell’impero, dove veniva distribuito e commercializzato, via mare nell’intero bacino del Mediterraneo, utilizzando le anfore costruite nelle fornaci di Apani, Marmorelle, Giancola e La Rosa.
Grazie al ritrovamento di alcuni di questi contenitori “firmati” dai fabbricanti brindisini (bolli impressi sulle anse delle anfore prima della cottura), è stato possibile confermare la presenza di vino proveniente da Brindisi anche nelle cantine di Erode il Grande, in Palestina. Proprio i romani, ben duemila anni fa, sono stati i primi ad attuare la cosiddetta filiera vitivinicola, ovvero la coltivazione delle uve, la lavorazione del raccolto, la trasformazione del mosto e la commercializzazione del vino presso la stessa azienda, un concetto moderno che oggi tanto si auspica per rilanciare le produzioni agricole locali e che da qualche anno alcune aziende private locali mettono in atto con successo. Plinio racconta del modo particolare di sostenere le viti, una tecnica di coltivazione chiamata “funetum”: s’intrecciavano i tralci ancora teneri tra vite e vite con raffia o con funicelle, in modo da formare un arco, così da sostenersi a vicenda.
Alcuni studiosi affermano che i romani allungavano il vino con l’acqua, calda o fredda, subito prima di berlo, probabilmente perché all’epoca la bevanda aveva una gradazione alcolica ed una consistenza molto più alta dell’attuale, si parla di una sorta di mosto alcolico dal sapore aspro e resinoso. Il rapporto di diluizione in acqua era deciso da un “arbiter bibendi”, le proporzioni potevano essere anche di sette parti di acqua ed una di vino, ciò può rendere l’idea del tipo di bevanda che talvolta veniva anche addolcita con l’aggiunta di miele. Inoltre già all’epoca non mancavano le manipolazioni con l’aggiunta di ingredienti utili – si credeva – ad una migliore conservazione del vino, o anche per renderlo più profumato ed aromatico con l’aggiunta di piante odorose come rosmarino, finocchio e anice, ma anche con chiodi di garofano, zenzero e cannella. Un radicale cambiamento delle tecniche di coltivazione si è avuto nella prima metà dell’800, quando la Fillossera, un insetto fitofago altamente dannoso che si nutriva delle radici della pianta, provocò in breve tempo la distruzione di interi vigneti in tutto il continente europeo.
Da qual momento fu necessario effettuare l’innesto, ovvero sul “piede” della pianta americana (con apparato radicale resistente all’insetto) veniva fatta attecchire una cultivar europea. Così la viticoltura conosciuta sin dai tempi antichi scompariva per sempre lasciando spazio ad una nuova forma di coltivazione. L’ultima grande trasformazione si sta vivendo in questi anni. Un mercato poco remunerativo e gli incentivi comunitari per l’estirpazione hanno drasticamente ridotto le superfici coltivate, troppo spesso trasformate in orribili campi fotovoltaici, e i pochi vigneti rimasti o quelli reimpiantati hanno subito una rapida trasformazione della forma d’allevamento, passando dal tradizionale “alberello” all’attuale “spalliera”, per essere idonei alla completa meccanizzazione necessaria sia per mancanza di manodopera che per contenere gli alti costi di produzione.
L’alberello è il frutto della saggezza contadina che nel tempo ha messo a punto una forma di coltivazione ideale per un’area tendenzialmente a clima siccitoso, una forma di allevamento destinata inesorabilmente a scomparire (si è valutata una perdita di oltre il 90%), nonostante proclami di associazioni e le richieste di intervento di tutela per questo tradizionale sistema di coltivazione. Il vigneto per diverse generazioni è stato tramandato come una sorta di corredo genetico di una famiglia, ovvero dalle piante più vecchie venivano presi i tralci da utilizzare nell’impianto di un nuovo vigneto dello stesso nucleo familiare. Ma agli ultimi viticoltori non si può chiedere di conservare una tradizione a proprie spese, nonostante siano consapevoli che l’estirpazione dei vecchi vigneti rappresenta anche una perdita di una importante identità agricola, culturale e paesaggistica dell’intero territorio.
Giovanni Membola