Il re non immaginava che a Brindisi sarebbe rimasto per cinque mesi

di GIANCARLO SACRESTANO

12 settembre 1943. Con l’arrivo del re, del presidente del consiglio, di parte del governo e di buona parte del comando delle forze armate, Brindisi, è chiamata a rivestire il ruolo di Capitale. Al momento del proclama alla nazione, l’11 settembre, il re non sa neppure quanto tempo resterà nell’ammiragliato di Brindisi e nella formula sibillina del comunicato egli non cita il nome della città messapica, vuoi per paura di rappresaglie, vuoi perché ancora non sa che vi rimarrà ben 5 mesi.

Nelle formula “…altro luogo del sacro suolo d’Italia” si racchiude più l’evocazione di una unità che è solo presente nel suo pensiero, che la realtà. Il Paese, non solo è diviso, ma tragicamente caduto nella disperazione e in lui moltissimi già riconoscono le fattezze del traditore della patria.

Ricorrendo il 70esimo anniversario dei fatti accaduti nel settembre 1943, è compito nostro, quello di rileggere alla luce della storia e non della emozione e tanto meno della verità di parte, fatti, luoghi e persone.

Per troppi anni, abbiamo evitato di confrontarci con le responsabilità che rivengono a chi è chiamato al ruolo di testimone. Riconoscere a Brindisi la dignità d’aver assunto, in un momento tragicissimo il compito di capitale, non deve essere ridotto ad abbracciare una tesi folcloristica, ma unirsi con responsabilità alle ragioni che in quelle stesse ore hanno costruito la speranza di rinascita della comunità.
L’assenza, nei decenni trascorsi di una costruzione della memoria di quei fatti, la tiepidissima accoglienza, tra i brindisini della ricorrenza del 70esimo anniversario, raccontano un bisogno che deve essere colmato al più presto. Brindisi è nel novero di quelle città che la storia ha convocato a responsabilità più alte, e tanto resta. Ignorarlo o peggio, rimanerne indifferenti, rappresenta il peggiore degli oltraggi che possiamo compiere alla nostra stessa identità.
Vivere passivamente, significa delegare ad altri il nostro futuro ed io al mio e quello delle mie figlie, non ci abdico così facilmente. Vivo da sempre a Brindisi, e nessuno mi paga per dire quanto è bello vivere qui, semmai, pago per restarci, cercando di onorare la dignità della memoria comune.
Il 12 settembre del 1943, si provvedeva ancora ai primi bisogni elementari dei nuovi ospiti. Solo il generale Carboni, aveva con sè 1200 lire, tutti gli altri, niente. Allo stesso re, il pigiama per la notte è offerto dal principe Dentice di Frasso di San Vito dei Normanni, accorso nelle ore successive a rendere omaggio alla testa coronata.
Che nelle stesse ore, Roma affondasse sotto i colpi dei tedeschi, i signori rifugiatisi a Brindisi, certo non davano cenno di preoccuparsene. Erano troppo intenti a cercare di trattare la loro vita per preoccuparsi di quella degli italiani e se questo sarebbe comunque accettabile per la testa coronata del re o di quella del principe ereditario, Umberto, a cui, in quelle ore, il re pensava di consegnare la corona con l’abdicazione, non era accoglibile per tutta quella pletora di generali e ammiragli che a centinaia si erano accalcati sul molo di Ortona nel vano tentativo di salire a bordo della corvetta “Baionetta” la piccola nave da 670 tonnellate, che ha condotto il re a Brindisi.
L’aiutante del re, il generale Puntoni, aveva dovuto fare uso di una sventagliata di mitra per evitare che salissero sulla nave. Moltissimi furono quelli che svestirono le divise ed in abiti borghesi si allontanarono in cerca di salvezza.
Nelle stesse ore anche, in altri “sacri luoghi” in Egeo, nei balcani, in Russia, i soldati italiani, venivano colti di sorpresa dall’apprendere dagli stessi tedeschi di non essere più loro alleati, ma nemici. In poche ore, 750-800mila soldati italiani vennero fatti prigionieri. 60.000 moriranno.
Tra il 15 e il 26 settembre 1943 a Cefalonia, nel mare Egeo, i nostri ragazzi, della divisione “AQUI” respinsero l’intimazione alla resa e si batterono contro i tedeschi, meglio equipaggiati e soprattutto assistiti nella battaglia dai loro aerei e dalle loro navi. I nostri erano totalmente privi di appoggi e di comandi, quegli appoggi e quei comandi che solitamente arrivavano proprio da Brindisi.
Quel che avvenne, oltrepassa il semplice concetto di violenza. Morirono in combattimento: 65 tra ufficiali e sottufficiali e 1250 fanti. 155 tra ufficiali e sottufficiali con 5000 soldati furono trucidati. 3000 furono i dispersi in mare. I sopravvissuti furono trasferiti inei campi di prigionia che i tedeschi approntarono immediatamente in Germania e Polonia dove gli italiani furono “ospitati” con la indegnità militare di I.M.I. un acronimo che racchiude nel suo criptico significato, un inganno.
La battaglia di Cefalonia è ricordata quale primo episodio della resistenza italiana. Non è difficile riconoscere nella dignità di quegli uomini in divisa, l’incarnazione dei valori fondativi dello Stato unitario nato dal risorgimento e la contemporanea presenza, in embrione, di quegli elementi caratteristici dei valori moderni su cui si fonderà la nuova famiglia italiana a far data dal 2 giugno 1946, quando cioè, il popolo diviene sovrano e con un referendum sceglie l’ordinamento del nuovo Stato: la Repubblica democratica.
Certamente più complesso è riconoscere i medesimi elementi nella piccola realtà di Brindisi che al tempo ricopriva la dignità di capitale. Eppure essi erano presenti e ben saldi, e proprio la parentesi di accogliente tranquillità offerta al Re, ma anche agli alleati anglo-americani che giunsero in città a partire dall’11 settembre, rappresenta, essa stessa, la ragione più profonda della nostra attuale identità democratica. La tolleranza per le diversità che si esercita attraverso l’accoglienza ospitale.

La prossima puntata sarà pubblicata domenica 15 settembre.