Pozzo di Vito: dai tempi dei Romani è ancora lì

L’antica strada dell’acqua, ovvero l’acquedotto voluto dai romani per la città di Brindisi, è un’opera architettonica straordinaria nel suo genere e, nonostante il disinteresse generale, a distanza di oltre ventuno secoli conserva importanti testimonianze conosciute solo da pochi tra studiosi e residenti.
Il sistema di approvvigionamento idrico fu costruito nel I secolo d.C. e prendeva origine in località “Pozzo di Vito”, a circa 9 km a ovest della città nei pressi dell’ex base Usaf, con il grande bacino di raccolta delle acque di falda che alimentava il sistema di approvvigionamento idrico alla città di Brindisi in epoca romana (I – II secolo d.C.). L’intero insieme rappresenta una delle più interessanti opere dell’ingegneria idraulica romana di tutto il Salento, una meraviglia dell’archeologia locale che purtroppo solo in pochi conoscono.
Nell’ampia vasca circolare situata a ridosso del canale Lapani (nome originale di quello che, per un errore di trascrizione, oggi chiamiamo Apani) convogliavano le acque sorgive raccolte dai pozzi scavati nei dintorni attraverso quattro cunicoli sotterranei, detti “specus”, mentre un quinto cunicolo, poco più grande degli altri, portava l’acqua alla città seguendo strettamente la morfologia del terreno, avendo il merito di fornire al condotto una graduale ma costante pendenza naturale lungo i dodici km del percorso. Lo specus passava da contrada Marmorelle, attraversava le masserie Restinco, Cillarese e Scalella per poi svoltare e seguire parallelamente la via Appia e giungere alle vasche limarie di Porta Mesagne, dove l’acqua veniva purificata per decantazione dalle particelle sospese, e quindi ripartita ed immessa nelle condutture urbane e distribuita alle fontane e alle altre cisterne della città romana. La realizzazione dell’acquedotto veniva particolarmente curata dai romani, sia per venire incontro alle necessità degli abitanti delle città, sia per rispondere alle esigenze di “firmitas, venustas, utilitas” cioè solidità, bellezza e utilità.
La foggia di Pozzo di Vito misura un diametro di ben sette metri e mezzo, profonda poco più di sei metri, attualmente versa in uno stato di pessima conservazione, colma di acqua stagnante e circondata da vegetazione spontanea che, per spinta delle radici, sta inesorabilmente danneggiando le pareti laterali di contenimento. Un muretto più recente circonda il bacino evitando l’ingresso casuale di animali e persone.
Il bacino fu scoperto nel 1864 durante la valutazione del territorio provinciale della Terra d’Otranto necessaria a costruire pozzi artesiani utili all’irrigazione dei campi, incarico affidato all’idrologo francese Aristide Mauget. Un interessante rilievo del bacino fu redatto in data 22 marzo 1888 su un rotolo in cartoncino dove venne rappresentata la planimetria e la sezione in scala 1:100 della vasca – all’epoca pressoché integra – insieme ai prospetti in scala 1:20 dei cinque specus.
Negli anni ’70 studi più approfonditi furono condotti dal prof. Cesare Marangio, docente universitario e autorevole conoscitore della Brindisi Romana, che nel suo lavoro ha confermato la tipologia della muratura laterale di rivestimento del pozzo, avente uno spessore di 80 cm. In particolare partendo dalla base e per un’altezza 1,10 metri, la muratura fu realizzata in “opera quadrata” (opus quadratum), quindi una lista di mattoni da 4 cm la divide dalla parte superiore in “opera reticolata” (opus reticulatum, tecnica edilizia che dava forma ad un reticolo diagonale in rilievo sulla parete). Il livello dell’acqua misurava poco più di 3 metri dal fondo, la stessa quota rilevata nel 1888.
Le condotte erano – e forse lo sono ancora – caratterizzate dalla volta ad arco rialzato ed erano larghe circa 60 cm, lo specus ad est che portava l’acqua alla città era alto poco più di due metri e si poggiava sulla platea arenaria, gli altri quattro condotti misuravano un’altezza di circa 1,50 metri e poggiavano su una base di tufi, rialzati di circa 30 cm dal fondo. Anche queste gallerie erano rivestite con opus quadratum e reticulatum e risultavano ingombre da detriti già dopo 2-5 metri dall’ingresso; alcuni elementi specifici permisero agli studiosi di ipotizzare interventi di risistemazione di uno di questi corridoi sotterranei nel corso del IV sec. d.C.
Lungo tutto il percorso del cunicolo sotterraneo che dal pozzo-cisterna portava l’acqua alla colonia brindisina, seguendo una pendenza media calcolata attorno al 2%, vi erano una serie di torrini utilizzati come sfiatatoi e come accessi per l’ispezione e la manutenzione della condotta; questi pozzi erano disposti a circa 100-150 metri uno dall’altro e realizzati con blocchi di tufo, a pianta quadrata, delle dimensioni di circa 70 x 60 cm e alti poco più di due metri. Gran parte di questi pozzetti sono rimasti visibili fino alla metà dell’800 e grazie a loro è stato anche possibile individuare con maggiore precisione l’intero tragitto del condotto. Alcuni sono ancora visibili nelle campagne nei pressi del bacino e vengono utilizzati, a distanza di venti secoli, come pozzi di acqua freatica per l’irrigazione. Secondo alcuni studiosi uno di questo torrini è presente all’interno del Parco Cesare Braico, a ridosso del muro di recinzione che separa l’area verde da via Cappuccini, altri sarebbero stati riscontrati in alcuni cortili di abitazioni private di via Monte Sabotino.
Il toponimo del luogo risalirebbe, secondo un racconto popolare che gli anziani contadini della zona ricordano bene, alla tragica scomparsa nel pozzo di un certo Vito e del suo cavallo, caduti accidentalmente con tutto il calesse e mai più ritrovati. L’ampio diametro della vasca infatti lasciava immaginare ai contadini dell’epoca, ignari delle reali dimensioni dell’antichissima struttura, che il pozzo non avesse fondo, il manufatto infatti è stato da sempre particolarmente temuto e rispettato.