Un tempo, neanche tanto lontano, il lavoro era per sempre. Poi il suo posto è stato preso dai diamanti, almeno a giudicare dalla pubblicità. Chi apparteneva alle classi meno agiate aveva il proprio destino lavorativo stampato nel DNA. Si andava nei campi o nelle officine ad aiutare il padre, in attesa di prenderne il posto. Per questi giovani la scuola rappresentava una sorta di intermezzo obbligatorio tra un periodo lavorativo e l’altro. Per i più temerari vi era la valvola di sfogo dell’emigrazione: prima verso terre lontane, poi verso il Nord del Paese, agli albori del boom economico. Le professioni liberali erano riservate ad una elite.
Poi, con l’espansione economica degli anni ’60, anche da noi iniziò a funzionare l’ascensore sociale. Le battaglie operaie e studentesche degli anni ’70 fecero il resto. La nostra società divenne più libera. Si assistette ad una stagione in cui i diritti prendevano gradualmente il posto dei privilegi. Non faceva più notizia che il figlio di un contadino o di un operaio, se particolarmente dotato, divenisse un medico affermato, un brillante avvocato o uno stimato ingegnere. Un melting pot all’italiana, in cui i meridionali si mescolavano ai settentrionali, i figli del popolo ai rampolli della borghesia, dando luogo ad un inedito dinamismo economico, culturale, sociale, prima sconosciuto al nostro Paese.
Il concetto della selezione per merito prendeva lentamente il posto di quello dell’appartenenza ad un determinato censo. La scrematura veniva in qualche modo fatta alla fine della scuola dell’obbligo, con la pagellina finale in cui, accanto ai voti, compariva anche il suggerimento per il proseguo degli studi. Così si consigliava all’alunno più bravo la frequenza del liceo classico o scientifico, preludio di una brillante carriera universitaria. Per gli altri non rimaneva che iscriversi ad un istituto tecnico, industriale o professionale.
Adesso l’ascensore sociale è fermo ostinatamente al piano, come se fosse andata via la corrente. Come un tempo, i figli dei notai, degli avvocati, dei medici, degli ingegneri, hanno ripreso a fare la professione dei loro genitori. Nei campi non va più nessuno. E servono sempre meno operai. E’ ripresa l’emigrazione, ma con caratteristiche diverse da quella di un tempo: ora ad andare via sono i giovani ricercatori, che vanno ad innervare le università americane. La scuola sembra sempre più distante dal mondo che la circonda: da viatico per una occupazione soddisfacente ad area di parcheggio. E il lavoro è sempre più precario.
Il risultato di questa regressione è quello di avere una massa di giovani diplomati o laureati che stentano a immaginare il loro futuro. Per loro gli inglesi hanno coniato l’acronimo di NEET, che starebbe per Not in Education, Employment or Training. Ossia giovani che sono fuori da ogni impegno di studio, formazione o lavoro. Generalmente si tratta di persone dall’elevato spessore culturale, in particolare donne, cui un titolo di studio, la laurea o una specializzazione non sono stati sufficienti per trovare una stabile posizione lavorativa. Spesso di tratta di talenti inespressi, cosmopoliti e poliglotti, costretti ad accontentarsi di occupazioni saltuarie. E’ tra di loro che Facchinetti, il patron di Eataly, ha pescato per l’apertura del suo store a Bari:160 giovani, tutti assunti a tempo determinato. La giustificazione? Ho avuto una autorizzazione temporanea ed ho modellato su questa i contratti di lavoro. Insomma, l’inefficienza delle Amministrazioni pubbliche ed il rischio di impresa scaricato su giovani in cerca di occupazione.
Del resto, lo stesso concetto di gioventù è cambiato. Fino agli anni Ottanta venivano considerati giovani coloro che avevano un’età compresa tra i 15 e i 24 anni. Col tempo, però, i risultati emersi dalle ricerche hanno mostrato un progressivo differimento delle tradizionali tappe di passaggio dall’adolescenza all’età adulta: l’ingresso nel mondo del lavoro, il matrimonio, la nascita dei figli. Ciò ha necessariamente imposto uno slittamento semantico e la fascia di età che definiva i giovani è stata ampliata fino a 29 anni per arrivare, nel nuovo millennio, a 35 anni. Insomma, si è giovani per forza! Altro che bamboccioni o schizzinosi…
Il dato incredibile è che i NEET rappresentano in Italia il 23,9% della popolazione attiva, a fronte di una media europea del 15,9%: basterebbero per fare una rivoluzione! Eppure, nessuno sembra protestare. Regna una calma piatta, incolore, insapore. Mi chiedo come mai anche da noi non sbocci una Primavera, non ci sia una piazza Taksim o Tahrir, come in Turchia ed in Egitto. Forse manca il collante giusto. La nostra è una religione per rassegnati (beati gli ultimi, perché loro è il regno dei cieli). E la politica non parla più il linguaggio del cuore, della passione, della speranza. Vi era stata una fiammata, con l’affermarsi del Movimento 5 Stelle (fateci caso: le percentuali tra i votanti di Grillo ed id il numero dei NEET nostrani sembrano coincidere) ma poi tutto è rientrato in una disarmante normalità. Dalla battaglia per il reddito di cittadinanza alla guerra degli scontrini il passo è stato troppo lungo per rimanere indolore. E forse da noi l’acronimo NEET andrebbe integrato con una consonante: Not in Education, Employment, Training or Policy.
Giovanni Antonino