Trentamila lire per conquistare il mondo

Continuo a leggere i giornali. Lo faccio presto, prestissimo. Mai dopo le 6.30. Il fruscio delle pagine che scorrono sotto le dita è la cosa che più mi manca al risveglio, quando sono in vacanza. Nonostante l’orgia di informazioni sparate dai notiziari e dai siti on line non rinuncio la mattina al sapore del caffè misto ad inchiostro. E i polpastrelli macchiati di nero mi sembrano un pedaggio ragionevole da pagare alla mia sete di informazioni. 

Di solito salto a pie’ pari le prime pagine. La politica oramai mi annoia. Mi intrigano di più le rubriche. E tra queste quelle dei viaggi. Molto spesso ho organizzato le mie ferie seguendo gli itinerari consigliati dal Corriere della Sera. Altre volte mi limito a viaggiare con la fantasia, spesso pescando tra i ricordi. Del resto, non si viaggia solo  negli spazi ma anche attraverso il tempo. 

Viaggiare è un’immagine dell’aspirazione, diceva Jung. E su tutto prevale la mia voglia di essere lontano mille miglia dal posto in cui mi trovo. In fondo, il viaggio è una metafora del percorso dell’uomo attraverso la vita. Lo ha insegnato Dante. Peccato che io abbia seguito un itinerario diverso dalla sua trilogia: prima il Paradiso, poi l’Inferno e adesso il Purgatorio. 

Che emozione qualche giorno addietro leggere, tra le mete consigliate dal Corriere, l’isola greca di Lero, nel Dodecanneso. La tappa finale del mio primo viaggio all’estero, a lungo sognato e poi finalmente realizzato. Di quel luogo, per noi diventato mitico, parlava ogni anno un nostro compagno di classe, alla ripresa della attività scolastica. Lui ci trascorreva le vacanze estive. Sua madre era nata lì e la nonna possedeva ancora una casa nell’isola . 

Doveva essere proprio un Paradiso in terra, a giudicare dal numero delle discoteche presenti e dalla disponibilità delle turiste che affollavano le sue spiagge. Così un anno decidemmo di accogliere il suo invito ad andare a trovarlo. In tasca un biglietto con su scritto “Platano, Lero, Egeo, Grecia” e trentamila lire, frutto della mia attività di distributore di volantini della Big Mans School all’uscita dell’Upim e della Standa. 

“Non buttate questa offerta, un giorno potrebbe esservi utile”, recitava il messaggio promozionale. Si riferiva ai corsi di lingua che organizzava la scuola diretta da quel personaggio bizzarro che era il Professor Paul Garnd’Homme. Ma a me sembrava un invito incessante a prendere finalmente il largo. E allora via, munito di sacco a pelo come i tanti turisti che guardavo con invidia attraversare i corsi cittadini per raggiungere le banchine in cui erano ormeggiate le navi per la Grecia: l’Appia e l’Egnazia, il mio passaporto verso l’avventura. 

Certo, bisognava dare una motivazione  nobile a quel viaggio. Per un giovane militante di Lotta Continua (come è stato accidentato il mio percorso politico!) confessare di voler andare in Grecia alla ricerca della avventura facile con splendide ragazze nordeuropee non era certo dignitoso. 

Ma la giustificazione era a portata di mano: la Grecia era appena uscita dal regime dittatoriale dei Colonnelli, che aveva tenuto sotto il giogo del fascismo il Paese per sette anni, dal 1967 al 1974, ed una visita al Politecnico di Atene, in cui appena due anni prima erano state trucidate 24 persone non poteva che arricchire il cursus honorem di un aspirante rivoluzionario. 

Che meraviglia constatare che in Grecia non erano poi molti coloro che continuavano a viaggiare col sacco a pelo, preferendo comodi alberghi alle asperità del suolo pubblico e alla intolleranza della polizia ellenica. E, una volta giunti a Lero, dopo un viaggio avventuroso su una nave in cui le scialuppe di salvataggio difficilmente avrebbero tenuto il mare, scoprire che di discoteche non vi era neppure l’ombra, che le uniche presenze straniere sull’isola erano gli italiani che andavano a trovare i loro cari sepolti in un cimitero di guerra e che i juke box diffondevano ancora le note delle canzoni di Little Tony e Bobby Solo. 

Non una lacrima ma una espressione esterefatta, di sgomento e di paura per le sue bugie portate a nudo, segnava il volto del nostro amico quando ci vide arrivare. La stessa che assumemmo noi quando vedemmo i tombini ancora contrassegnati dal simbolo del fascio e constatammo il ricordo ottimo degli italiani che conservavano gli abitanti dell’isola. Al punto da ospitarci gratuitamente in una casa ancora in costruzione. Il miglior regalo che si potesse fare a chi, con trentamila lire, pensava di conquistare il mondo. Ancora oggi a quanti mi chiedono quali luoghi, tra i tanti che ho visitato, mi piacerebbe rivedere, rispondo inequivocabilmente: “Platano, Lero, Egeo, Grecia”. Forse perché il primo viaggio, proprio come il primo amore, non si scorda mai. Oppure, più semplicemente, perché viaggiare nel tempo mi consente di fuggire dal Purgatorio in cui sono confinato.

GIOVANNI ANTONINO