Fotovoltaico, fonte rinnovabile di interessi

Il recente sequestro di un numero impressionante di parchi fotovoltaici operato dalla magistratura brindisina mi ha indotto a riflettere su come sia particolarmente controverso il rapporto tra il nostro territorio e le industrie energetiche in genere. Quale che sia la forma di alimentazione di questi insediamenti, fossile (carbone, gas) o rinnovabile (solare, eolico, biomasse), sembra inevitabile una crisi di rigetto del territorio e l’intervento della magistratura penale.

Degli insediamenti energetici si occuperà il Consiglio Comunale l’11 novembre. Non è ben chiaro se l’obiettivo è quello di una verifica degli impegni convenzionalmente assunti dai proprietari degli impianti o se se ne vuole mettere in discussione l’attuale assetto produttivo.

Argomento spinoso in un Paese in cui la riforma del titolo V della Costituzione ha fatto rientrare l’energia tra le materie a legislazione concorrente dello Stato e delle Regioni, costringendo i produttori ad un esame preventivo della normativa regionale esistente prima di decidere la localizzazione dei loro impianti. In assenza di un vero piano energetico nazionale, allora, il rischio è che un intero comparto produttivo sia esposto agli umori del momento, quanto mai mutevoli quando a dettare la linea sono le Autonomie locali o la magistratura penale, che sempre più di frequente si attribuisce una funzione di interpretazione della Legge piuttosto che quella, che gli è connaturale, di vigile custode della sua applicazione.

Spesso l’intervento della magistratura penale è invocato dalle stesse persone cui è delegato il governo del territorio, quale ultimo tentativo di sottrarsi alle responsabilità che competono loro. Così, da intervento estremo, l’irruzione sulla scena della magistratura penale è divenuta il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, più incline ad assecondare un orientamento anti – industriale travestito da ecologismo che non a procedere con la cautela che problematiche così complesse suggerirebbe.

Eppure, anche nel campo della produzione di energia mediante l’utilizzo di fonti rinnovabili sarebbe stato possibile attivare prima gli strumenti di controllo e intervenire per tempo. Evitando che scandali, inchieste, arresti, aziende che chiudono, fallimenti e licenziamenti consentissero ai soliti soloni di dire oggi che anche lo sviluppo delle energie alternative non sia un buon affare per la regione Puglia e per Brindisi in modo particolare. La legislazione regionale pugliese, derogando da quella nazionale, consentiva che gli impianti di produzione di energia mediante conversione fotovoltaica fino alla potenza installata di un megawatt fossero autorizzabili con una semplice DIA (Denuncia  di Inizio di Attività) a condizione che non fossero installati su terreni dello stesso proprietario o frutto di un frazionamento fatto nell’ultimo biennio.

Mi sembra di aver capito che proprio di questo sono accusati quelli che sono stati definiti, non senza un pizzico di ironia, “i furbetti del fotovoltaico”: aver acquistato appezzamenti di grandi dimensioni, che poi venivano frazionati e venduti a soggetti giuridici formalmente diversi ma in realtà riconducibili allo stesso centro di interessi. In tal modo veniva aggirato l’obbligo di dotarsi di una Autorizzazione Unica regionale per impianti di potenza superiore ad un megawatt, sottraendosi anche ai controlli previsti da questa procedura (a cominciare dalla valutazione di impatto ambientale). Possibile che nei Comuni interessati nessuno si sia accorto di questi giochetti? Grazie alla normativa particolarmente favorevole in Puglia erano arrivati colossi del settore.

Sarebbe stato possibile avviare con loro proficue collaborazioni, magari chiedendo che parte della catena produttiva fosse delocalizzata da noi. Si poteva chiedere che almeno le attività costruttive e manutentive fossero patrimonio delle aziende locali. Si potevano attivare forme di controllo sulla manodopera utilizzata, privilegiando i tanti inoccupati brindisini.  Niente di tutto questo è stato fatto. La maggior parte dei Comuni si sono semplicemente affrettati a “monetizzare” il fenomeno del fotovoltaico, definendo schemi di convenzione in cui ai produttori veniva imposto di versare un contributo alle casse comunali, direttamente proporzionale alla potenza degli impianti, in cambio di un sostanziale lasciapassare per tutti gli altri aspetti.

Nessuno che si sia preoccupato di imporre interventi di mitigazione visiva degli impianti, con l’utilizzo di essenze autoctone. Nessuno che si sia industriato per verificare se effettivamente il 50 % del terreno posto al servizio dell’impianto fosse utilizzato per attività agricole, come pure prevedeva la Legge. Le stesse Province non sono state da meno, aumentando in maniera vertiginosa la TOSAP dovuta per l’attraversamento delle strade provinciali. Alla catena si è aggiunta l’ENEL, in qualità di gestore della rete, che ha imposto ai titolari degli impianti la costruzione di cabine di trasformazione dell’energia prodotta e il rifacimento, se non addirittura la costruzione ex novo,  delle linee elettriche. E’ evidente, allora, che da qualche parte questi maggiori costi andavano recuperati. I leader del settore hanno ben presto lasciato il posto agli speculatori, che si accollavano il “lavoro sporco”.

Loro acquisivano le autorizzazioni, magari in modo fraudolento. Loro provvedevano alla costruzione degli impianti, spesso utilizzando manodopera assunta in modo irregolare e sottoposta a vere e proprie forme di sfruttamento, se non addirittura di schiavitù. E una volta che gli impianti erano stati costruiti e connessi alla rete elettrica nazionale venivano poi venduti ai big player del settore. Insomma, alla fine, su un fenomeno virtuoso, quale l’utilizzo delle fonti rinnovabili per produrre energia e sottrarsi alla dipendenza dalle fonti fossili, si sono innestati tali e tanti interessi e si sono verificate vere e proprie negligenze da avere come unica conseguenza un territorio reso ancor più povero dagli oltraggi subiti.

Giovanni Antonino